Il populismo economico di Donald Trump. E fu cosi che con più di mezzo milione di voti di vantaggio su Donald Trump, Hillary Clinton perse le elezioni presidenziali del 2016 (dati al 13 novembre: Hillary Clinton ha ottenuto 60.981.118 voti, Donald Trump 60.350.241). Vale la pena ricordarlo qui, alla luce dei molti commenti letti in questi ultimi giorni da cui si trae l’impressione di una vittoria netta del candidato repubblicano. Donald Trump ha vinto secondo le regole vigenti e gli va dato atto di aver condotto nelle due settimane antecedenti il voto una campagna instancabile e vigorosa che, insieme alla sorpresa d’autunno dell’Fbi, l’ha sicuramente premiato. Tuttavia, Donald Trump non è maggioritario negli Stati Uniti e, come cercheremo di argomentare in questo articolo limitatamente al campo economico – ma lo stesso vale per la politica estera o le politiche del welfare –, non è chiaro quale mandato abbia ricevuto, essendo il suo programma privo di dettagli e pieno di contraddizioni.

Per vincere le primarie repubblicane prima e le elezioni presidenziali poi, Donald Trump ha condotto una campagna anti-establishment, basata su un programma economico-sociale tipico della destra populista. Ha cosi promesso massicce riduzioni d’imposta per imprese e individui, un programma di investimenti infrastrutturali (che comprende il muro col Messico) dalle dimensioni doppie rispetto a quello proposto da Hillary Clinton, un forte aumento dell’occupazione, l’abolizione (parziale o totale, non è chiaro) dell’Obamacare, il mantenimento dell’attuale sistema di Welfare (naturalmente con tagli agli «sprechi»), un significativo aumento delle spese militari, un grande programma di deregolamentazione, il rimpatrio nei loro Paesi d’origine di milioni di immigrati illegali, l’abolizione della riforma finanziaria (il Dodd-Frank Act), tassi d’interesse più elevati, un dollaro forte, la reindustrializzazione del Paese con posti di lavoro ben remunerati nel manifatturiero grazie al ritorno a una situazione di equilibrio nel saldo della bilancia dei pagamenti e, infine, non solo il pareggio di bilancio, ma addirittura una riduzione significativa del debito pubblico.

Naturalmente al lettore sarà apparso immediatamente che qualcosa non quadra: come ridurre il deficit pubblico in presenza di massicci aumenti di spesa e riduzioni d’imposta? Come ottenere l’equilibrio della bilancia corrente con un dollaro forte, una crescita più elevata (che richiede per definizione più importazioni) e alti salari?

Per far quadrare il cerchio, Donald Trump ha messo insieme una squadra economica composta essenzialmente di uomini d’affari, Reagan supply-siders e teorici del protezionismo. Il gruppo ha posizioni chiaramente eterodosse e non include al momento alcun economista conservatore appartenente alle correnti principali del pensiero economico. Inoltre, il gruppo è lungi dall’essere coeso: per esempio i supply-siders reaganiani sono per il libero scambio, e quindi piuttosto freddi nei confronti delle misure protezionistiche annunciate dal nuovo presidente.

La risposta dei teorici delle nuove Trumponomics alle incoerenze sopra menzionate è stata di sostenere che, attraverso le misure proposte, la crescita economica statunitense raddoppierà (dall’attuale media del 2% nel periodo successivo alla Grande recessione si passerebbe ad una media del 4% durante il primo – ed eventualmente anche il secondo – mandato di Trump). Questo farebbe aumentare i proventi fiscali che, insieme ai tagli nelle spese improduttive del governo federale (da specificare), il rimpatrio dei profitti delle imprese americane al momento depositati all’estero (uno scudo fiscale in salsa statunitense) e ai risparmi sull’Obamacare, risanerebbe le finanze pubbliche. Inoltre, nuovi trattati commerciali con Cina, Messico e altri Paesi in surplus, il fatto che gli alleati degli Stati Uniti dovranno aumentare il loro contributo alle spese militari americane, i processi di reindustrializzazione e il nuovo boom energetico interno articolato su petrolio, gas e carbone farebbero sì che, nonostante la più forte crescita, il deficit corrente statunitense si ridurrebbe fino a scomparire.

Tutto spiegato dunque? Non proprio. Una serie di istituti di ricerca non-partisan hanno valutato con l’aiuto di modelli macroeconometrici gli effetti delle proposte di Donald Trump su crescita, occupazione e finanze pubbliche, e i risultati sono tutt’altro che incoraggianti (anche quando si mostrano generosi con gli effetti dal lato dell’offerta): rispetto ai trend attuali, nel decennio a venire l’attuazione del programma di Trump produrrebbe meno crescita, meno occupazione, più diseguaglianze e soprattutto un enorme buco di bilancio.

I conti dunque non tornano e la quadratura del cerchio non è riuscita. Ciò che non dovrebbe essere una sorpresa: in fondo tre caratteristiche intrinseche ai programmi populisti sono l’assenza di un quadro coerente, la faciloneria e la demagogia, e le Trumponomics non fanno eccezione.

Come spiegare però la reazione positiva dei mercati finanziari all’elezione di Donald Trump alla luce del fatto che il suo programma economico, secondo un appello firmato da venti premi Noberl per l’economia, «potrebbe mettere a repentaglio le fondamenta della prosperita’ americana e dell’economia globale»?

Poiché i conti non tornano, Wall Street ha scelto di aggiustarli, adattando, in nome del realismo, il programma di Trump ai propri desiderata (chi ha letto i rapporti di molte banche e istituzioni finanziarie private in questi giorni sa di cosa parlo). Di conseguenza, secondo gli analisti di Wall Street, non ci saranno politiche protezionistiche, un massiccio rimpatrio di immigrati clandestini e la costruzione del muro col Messico. Le spese in infrastrutture, le spese militari e le riduzioni d’imposta, da un lato sosterranno la domanda e dall’altro avranno un impatto positivo sui profitti delle imprese (e dunque sul mercato azionario). A livello settoriale, altre buone notizie per le imprese vengono dall’annuncio di voler abolire o cambiare sostanzialmente il Dodd-Frank Act, che ha ri-regolamentato i mercati finanziari dopo il crash del 2008, e dall’attesa deregolamentazione in campo energetico (con il probabile il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul cambiamento climatico). Il taglio delle imposte sulle imprese dal 35% al 15%, assieme allo scudo fiscale sopra menzionato e a tassi d’interesse più elevati (in primis a causa dell’aumento del deficit pubblico) dovrebbe rafforzare nel tempo il dollaro (il che rende le azioni delle imprese statunitensi interessanti, almeno nel breve periodo).

In sintesi, i mercati si attendono un Donald Trump addomesticato e, in ultima istanza, pro-establishment, le cui politiche economiche produrranno una crescita un po’ più sostenuta (nessuno crede veramente ad una media del 4% nei prossimi anni), un forte aumento delle diseguaglianze (che premieranno i profitti), e il ritorno dei twin deficits – i deficit gemelli: spesa pubblica e saldo della bilancia corrente. Poco importa che nel medio periodo un tale regime di crescita non sia economicamente, socialmente e ambientalmente sostenibile, poiché questo riguarda un orizzonte temporale più lungo di quello in cui normalmente operano i mercati finanziari, che reagiscono invece alle «buone notizie» di breve periodo.

Tuttavia viene da chiedersi quanto realistiche siano le «realistiche» Trumponomics di Wall Street. Tutti coloro che consideravano che Donald Trump sarebbe stato eletto solo se si fosse «presidenzializzato» sono stati clamorosamente smentiti. Se Trump adottasse il programma che i mercati finanziari si attendono/desiderano/sperano, una grande maggioranza dei suoi elettori non potrebbe non sentirsi tradita. Inoltre passerebbe alla Storia come un immenso ipocrita, difensore dell’establishment e dei suoi interessi pur pretendendo l’opposto.

Ora se c’è una cosa a cui Trump tiene è difendere la propria reputazione (e il proprio ego), anche al prezzo – come si è visto durante la campagna presidenziale – di mettere a rischio la propria elezione. E, pur essendo vero che non è un uomo di saldi principi, alcuni punti fermi li ha, e li ha puntualmente riconfermati nel corso della campagna elettorale. Oltre al taglio delle tasse, questi sono (nell’ordine in cui apparivano nel suo website): a) la «riforma» delle relazioni economiche tra gli Stati Uniti e la Cina; b) la costruzione del muro col Messico (da far pagare ai messicani); c) la riforma del sistema d’immigrazione. Non si vede come mai ora dovrebbe abbandonare proprio i temi che ne hanno determinato la popolarità e l’hanno portato alla vittoria.

Tuttavia, se il nuovo presidente perseguirà questi obiettivi lo scenario economico che emergerà sarà molto diverso da quello preconizzato dai mercati: guerre commerciali e dei tassi di cambio, incertezza, instabilità, tassi d’interesse più elevati, una probabile recessione globale, con in più forti tensioni etniche all’interno degli Stati Uniti.

Al momento è difficile dire quale dei due scenari (o una loro forma spuria) finirà per prevalere. Bisognerà attendere le nomine ai vertici economici, nonché l’enunciazione delle priorità economiche e delle modalità con cui saranno realizzate da parte del nuovo presidente e del Congresso. Quel che è certo già da ora è che su alcune questioni decisive (cambiamento climatico, stabilità finanziaria, multilateralismo economico) l’approccio della nuova amministrazione sarà molto diverso da quello dell’amministrazione precedente e la comunità internazionale finirà per pagare un prezzo elevato per questi cambiamenti.