«Anche se non si può escludere che Hillary Clinton possa chiudere la partita prima dell’8 novembre […] al momento l’esito della battaglia per la Casa Bianca resta più che mai aperto»: così concludevo il mio articolo del 5 ottobre scorso. Il giorno dopo, con l’uscita delle registrazioni contenenti commenti sconci e sessisti di Donald Trump, i fatti sembravano darmi torto. In una settimana il divario tra Clinton e Trump salì a 6-7 punti percentuali (e alcuni sondaggi davano Hillary addirittura in vantaggio di 12-14 punti). Il vantaggio era tale che il Partito democratico aveva cominciato a dirottare risorse umane e finanziarie verso Stati tradizionalmente repubblicani con la speranza di riconquistare il Senato e, chissà, anche la Camera dei Rappresentanti (a causa del modo in cui sono disegnati i distretti elettorali in molti Stati i democratici devono avere un consistente vantaggio per assicurarsi la maggioranza nella House of Representatives. Nel 2012, con più di un milione di voti di vantaggio sui repubblicani, i democratici ottennero 201 seggi contro i 234 dei repubblicani). Trump dal canto suo aveva peggiorato la propria posizione spendendo troppo tempo a difendersi dalle accuse di molestie sessuali e non riuscendo a far passare il proprio messaggio politico, tranne forse su un punto: Hillary è corrotta ed è protetta dall’establishment e dai media che tacciono sulle sue malefatte, in particolare sulle e-mail e sui controversi finanziamenti alla Fondazione Clinton.

Tuttavia, nonostante abbia molti siluri in pancia, The Donald resta inaffondabile. Il suo zoccolo duro non l’ha abbandonato nel momento più difficile. Cosi nell’ultima settimana di ottobre ha cominciato la rimonta (aiutato probabilmente dal drastico aumento dei premi assicurativi legati a Obamacare in alcuni Stati chiave e dalle rivelazioni di Wikileaks). Di conseguenza, ancor prima che l’Fbi annunciasse la riapertura delle investigazioni sulle e-mail di Clinton, il poll of polls lo dava di nuovo a soli quattro punti percentuali dalla sua rivale democratica.

Quale sarà l’impatto della riapertura dell’investigazione da parte dell’Fbi sulle presidenziali americane è difficile da valutare. A favore di Hillary Clinton gioca il fatto che circa il 10% dei votanti si è già recato alle urne e che molti elettori daranno il loro voto sulla base delle proposte e dei programmi dei candidati (e dunque la «sorpresa d’ottobre» non sarà sufficiente a fargli cambiare idea). Last but not least, nonostante gli ultimi sviluppi, è difficile immaginare che le minoranze ed una parte consistente dell’elettorato femminile abbandoneranno Hillary, anche se un aumento dell’astensionismo è probabile.

Detto questo, gli elementi a suo sfavore prevalgono nettamente. Anzitutto, la sorpresa d’ottobre consente a Trump di ricompattare gli elettori repubblicani, alcuni dei quali (in particolare gli elettori bianchi con un elevato titolo di studio) avevano concluso che Hillary era il minore dei mali e quindi o l’avrebbero votata o si sarebbero astenuti. I recenti sviluppi potrebbero determinare un loro ripensamento. Lo stesso potrebbe valere per gli elettori che si considerano indipendenti, mentre alcuni elettori democratici pro-Sanders e parte dei Millenials potrebbero ripiegare sui due candidati altrenativi (la verde Stein e il libertario Johnson). Già prima della riepertura dell’investigazione da parte dell’Fbi, Stein e Johnson danneggiavano più Clinton di Trump (nel poll of polls sopra menzionato, nel confronto a due Hillary ha ora un vantaggio del 4.6% in un’ipotetica corsa a due, ma solo del 3,8% in una corsa a quattro).

Un altro elemento che gioca a favore di Trump è che, essendo l’investigazione in corso, è improbabile che si conosceranno prima del voto i dettagli di quello che l’Fbi ha trovato nel computer di Anthony Weiner (l’ex marito del braccio destro di Hillary Clinton, Huma Abedin). Questo aiuta oggettivamente Trump, poiché è particolarmente difficile confutare il ragionamento sviluppato dal candidato repubblicano e dai suoi sostenitori: se l’Fbi ha riaperto l’investigazione dieci giorni prima del voto (pienamente consapevole di interferire nel processo elettorale con le implicazioni politiche che ne derivano), ci deve essere dietro qualcosa di grosso. Il fatto poi che le mail siano state ritrovate nel computer proprio di quel Weiner attualmente sotto investigazione per avere inviato foto compromettenti a una minorenne consente a Trump e ai suoi alleati di dipingere Hillary e il suo entourage come la personificazione stessa del sistema corrotto e corruttivo di Washington, in cui potere, denaro, sesso e menzogne, fanno tutt’uno per preservare l’establishment e la burocrazia federale, a spese del resto del Paese.

Nei giorni a venire (e fatta salva una «sorpresa di novembre», nell’uno o nell’altro campo) i sondaggi ci diranno (forse) se Hillary riuscirà a preservare in tutto o in parte il vantaggio acquisito o se invece l’affaire delle e-mail avrà un impatto dirompente sulla campagna elettorale. Più verosimilmente, lo si saprà con certezza solo una volta tutti i voti saranno stati contati (e anche in quel caso non è da escludere che l’esito sia contestato, in particolare in caso Trump risulti sconfitto di misura).

Per un osservatore non-americano (ma molti americani concorderebbero) i recenti sviluppi della campagna elettorale statunitense sono particolarmente preoccupanti. Anzitutto hanno reso gli Stati Uniti ancora più spaccati. Due universi paralleli si confrontano e si scontrano e i pochi canali di dialogo sono stati ulteriormente indeboliti (e talora obliterati). In campo internazionale, una vittoria di Trump aprirebbe una fase d’incertezza e di tensioni senza precedenti dai tempi della guerra fredda. Dal lato economico, la Trumponomics produrrebbe un ritorno del protezionismo ed aggraverebbe gli squilibri interni e internazionali degli Stati Uniti, rendendo una recessione globale più che probabile. Infine, all’interno del Paese, le tensioni sociali e razziali si acuirebbero fortemente. Tuttavia, anche con una vittoria di Hillary Clinton (che resta nonostante tutto lo scenario più probabile) le prospettive non sono rosee. Non solo la riapertura dell’investigazione da parte dell’Fbi ha reso più improbabile una riconquista del Congresso da parte dei democratici, ma ha anche tolto ai repubblicani ogni voglia/tentazione di collaborazione con la candidata democratica nel caso venisse eletta.

Anche se l’inazione è certamente da preferirsi a quello che Trump farebbe come presidente, c’è da temere un vuoto di leadership statunitense. Se nei prossimi quattro anni l’amministrazione e il Congresso si ritroveranno impantanati in una guerriglia permanente, caratterizzata da scontri frontali sul da farsi nella politica interna ed estera e da continue minacce di impeachment, di chiusura del governo federale ed eventualmente anche di default parziale sul debito, il resto del mondo non potrà non soffrirne le ricadute. Certo, non si possono escludere scenari più ottimisti (o meno pessimisti), ma la sorpresa d’ottobre e le sue unintended consequences li hanno definitivamente resi meno probabili.