Tutti vincitori? Il referendum ungherese sulle quote. Ieri sera i salotti budapestini somigliavano molto alle maratone televisive post-elettorali della Prima Repubblica italiana. Quelle in cui i partiti scambiavano un impercettibile guadagno per una «grande avanzata» e mascheravano il tracollo dietro l’anodina formula della «sostanziale tenuta». Chi ha vinto e chi ha perso, dunque? Al netto dei sofismi della comunicazione governativa («a questo referendum ha votato più gente che a quello sull’Unione europea nel 2003»), dal referendum ungherese sulle quote obbligatorie emergono alcuni dati chiari in chiave interna ma anche europea.

Viktor Orbán ha subito una battuta d’arresto politica su un tema a lui particolarmente caro, la difesa dei confini e con questi dell’identità nazionale ed europea. La campagna mediatica, dai tratti parossistici e spesso primitivi, ha in fin dei conti allontanato più elettori di quanti ne abbia avvicinati al primo ministro. L’affluenza al voto, inferiore al 44%, non è compensata neppure dalla schiacciante vittoria dei «no» (oltre il 98% dei voti validi espressi, pari a 3.250.000 dichiarazioni di appoggio alla linea del primo ministro e a oltre un milione di voti in più rispetto a quelli raccolti da Fidesz alle politiche del 2014). L’opposizione di sinistra, debole, frantumata e poco credibile, ha avuto stavolta buon gioco a chiamare i sostenitori al boicottaggio in un Paese in cui un terzo dei cittadini non si esprime mai alle urne.

Perchè Orbán ha fallito nell’obiettivo di compattare l’Ungheria intorno al rifiuto dello schema europeo di rilocazione obbligatoria dei richiedenti asilo, un argomento sul quale godeva teoricamente dell’appoggio dell’80% della popolazione? Da un lato, la campagna anti-migranti durata quasi un anno e mezzo ha trasportato il Paese in un universo parallelo, popolato esclusivamente da stranieri dediti a violenze: un dato di fatto in molti Paesi europei ma non in contrasto con l’esperienza quotidiana dell’Ungheria, che ha incontrato l’immigrazione di massa solo per qualche settimana nell’autunno 2015.

Il rifiuto di votare esprime una crisi di rigetto della propaganda governativa di ampi settori della popolazione, inclusi sorprendentemente i giovani elettori della destra radicale Jobbik, che le analisi dei flussi elettorali indicano oggi essere tra le cause del mancato raggiungimento del quorum. Orbán ha perso il referendum perché non ha saputo mobilitare gruppi di elettori diversi fra loro ma uniti dall’insoddisfazione per le politiche di governo: i pensionati, il cui assegno mensile non cresce ormai da due anni; i lavoratori del pubblico impiego e del comparto sanitario, spossati dalla continua rivoluzione burocratica e dai bassi salari; gli abitanti della capitale, che vorrebbero meno investimenti di prestigio e più attenzione ai problemi quotidiani, e soprattutto i giovani sotto i trent’anni, meno dipendenti dalla televisione e dai media pubblici.

Si può affermare che, nonostante i continui e interessati allarmi delle Ong e dei media vicini all’opposizione di sinistra, l’Ungheria di Orbán resta una democrazia in cui il voto (incluso il non voto come espressione di opposizione politica) resta libero, segreto e facoltativo. I cittadini si sono espressi senza condizionamenti e il governo, che pure non riconoscerà pubblicamente la sconfitta, dovrà tenere conto di un risultato inferiore alle proprie aspettative e sostituire il clima di «rivoluzione permanente» con una fase di governo dei problemi sociali. Il referendum dimostra che Orbán non è un leader imbattibile ma piuttosto il rappresentante, carismatico e politicamente capace, della più ampia minoranza del Paese. Se le altre minoranze di destra radicale e di sinistra liberale sapessero mettere da parte l’odio reciproco per stringere una «mostruosa» e oggi alquanto improbabile coalizione elettorale, potrebbero sconfiggerlo già nella primavera 2018. L’opposizione canta vittoria ma dalle urne emerge che solo Fidesz è oggi in grado di mobilitare in Ungheria milioni di persone per una causa, qualunque essa sia. Il dissenso anti-Orbán non si traduce in proposta politica: un’ottima notizia per il primo ministro e un motivo di riflessione per l’opposizione e gli intellettuali.

Che conseguenze avrà il fallito referendum sui rapporti fra l’Ungheria e l’Unione europea? A poche ore dalla chiusura dei seggi, Orbán ha già chiarito di voler aggirare il risultato referendario mediante lo strumento parlamentare, con l’annuncio di una modifica costituzionale sul tema delle quote. Orbán seguirebbe in questo presidente di Jobbik Gábor Vona, che lo aveva inutilmente invitato mesi fa a soprassedere su un referendum inutile e costoso in favore di una modifica costituzionale. È improbabile che si tratti di prove tecniche di alleanza elettorale. Lo spostamento di Jobbik verso il centro, ben visibile nell’ultimo anno, non ha come obiettivo finale quello di diventare un alleato minore di Fidesz, ma di sostituirsi nel medio periodo al partito di Orbán come forza di maggioranza relativa. Orbán tenterà piuttosto di tenere vivo l’argomento migrazione, sul quale a partire dal 2015 ha edificato la propria immagine di politico europeo in grado di offrire un’alternativa alla visione «immigrazioni sta» della Commissione europea.

I prossimi appuntamenti europei, a partire dalle elezioni presidenziali del 4 dicembre in Austria, dove la destra resta favorita nonostante l’attuale governo a guida socialdemocratica si prepari a sigillare i confini, mostreranno se la battuta d’arresto di Orbán si inquadri in un cambiamento di rotta generale o sia piuttosto frutto delle dinamiche interne ungheresi.