La rivolta degli imprenditori cinesi a Osmannoro e le inchieste di Prato sulle ronde organizzate da migranti cinesi e dirette contro migranti marocchini hanno colto le istituzioni di sorpresa. A stupire è soprattutto il fatto che la realtà non corrisponde affatto all’idillio, narrato con tanta cura negli ultimi anni, secondo cui le istituzioni e i migranti cinesi sarebbero andati mano nella mano verso un meraviglioso futuro, grazie a un programma di controlli serrati e selettivi condotti esclusivamente sulle imprese gestite dai migranti cinesi.

Non sono invece colti di sorpresa tanti osservatori esterni, che già da anni avevano visto delinearsi evoluzioni estremamente pericolose. Vorrei provare a ricostruire i contesti che hanno portato alle ronde e alla rivolta e lasciar emergere nella sua nudità lo strabismo delle istituzioni.

Le ronde di Prato – che sono ingiustificabili e inaccettabili – nascono da una situazione di esasperazione di lunga durata per le aggressioni e i furti contro i migranti cinesi, a cui le istituzioni hanno risposto con l’immobilismo.

Per rendersene conto bastava dare un’occhiata al sito di Associna, che nel 2014 ha dato vita alla pagina web #PratoInsicura. Luna Chen scriveva:

«Non sono sorpresa di essere stata derubata nel centro di Prato mentre camminavo con tre amici. Dopotutto, tutti i miei amici cinesi di Prato sono stati derubati almeno una volta negli ultimi anni e non vedo perché io avrei dovuto essere l’eccezione! Al contrario, sono sorpresa di essermela cavata solo con una sbucciatura al ginocchio. Sono davvero fortunata!».

Altri post raccontavano che i cinesi ne hanno abbastanza di essere considerati il bancomat della città o lamentavano la mancanza di attenzione delle autorità locali, che sembravano considerare i furti e le aggressioni come problema di un corpo estraneo.

Molte persone che ho intervistato hanno detto che chiedere aiuto alla polizia era inutile. Un enorme lavoro di sensibilizzazione al problema è stato svolto da Compost, un centro indipendente di produzione artistica, che nel 2013 ha raccolto più di cento denunce di furto da parte dei cinesi di Prato. Ma anche in questo caso le istituzioni non si sono mosse.

L’allora assessore comunale alla Sicurezza ha risposto a Luna Chen: i cinesi avrebbero dovuto essere più prudenti e non avrebbero dovuto portare con loro quantità di denaro che probabilmente nessun cittadino di Prato può permettersi.

Questa risposta è interessante, perché trasmette – condensandoli – messaggi politici diversi. Mettendo in contrapposizione migranti cinesi, da un lato, e «cittadini», dall’altro, l’assessore sottintendeva che la cittadinanza non è per i cinesi né per i loro figli. Inoltre, creava artificiosamente una divisione tra i cinesi da una parte, che sarebbero invariabilmente ricchi, e «i cittadini» dall’altra, poveri, o comunque più poveri. Questo approccio è estremamente pericoloso perché giustifica l’immobilismo delle istituzioni locali sulla questione.

Da allora, le persone al governo della città sono cambiate, ma l’immobilismo delle istituzioni su questo fenomeno rimane. Così come non c’è spazio per giustificare le ronde, non c’è nemmeno spazio per il tentativo delle istituzioni di sottrarsi alle proprie responsabilità per non aver affrontato una situazione che si è incancrenita scavando solchi di sfiducia.

Spostiamoci a Osmannoro, dove la rivolta degli imprenditori cinesi è nata. Il governatore della Toscana Rossi ha dichiarato che i controlli selettivi sulle imprese cinesi continueranno. È forse giunto il momento che le istituzioni smettano di osservare la proboscide, la coda e le zampe dell’elefante separatamente e finalmente prendano atto dell’esistenza dell’elefante nella sua interezza. L’«elefante» è l’industria della moda, che con la globalizzazione ha dovuto cambiare drasticamente. La fast fashion italiana non delocalizzata oggi esige dai terzisti condizioni analoghe a quelle offerte dalla delocalizzazione internazionale: manodopera a basso costo, tempi sincopati di produzione e violazione sistematica delle leggi sul lavoro. Queste richieste non sono un’optional, sono la conditio sine qua non per la produzione della moda italiana «in» Italia.

I migranti cinesi nella moda italiana sono riusciti a incarnare al meglio gli imperativi della moda globalizzata soprattutto attraverso accordi secondo cui i lavoratori vivono all’interno del laboratorio in cui lavorano e attraverso la mobilità frenetica degli operai. Hanno creato un «regime mobile» che risponde alle esigenze più recenti della moda, al punto che si sono progressivamente sostituiti ai terzisti italiani. Anche se a Prato un certo numero di migranti cinesi sono riusciti ad accedere alla posizione di ditta finale, nel complesso, nella moda italiana, i cinesi tendono a occupare la posizione di terzisti mentre le ditte finali sono in mano a italiani. Il che è esattamente l’opposto dell’extraterritorialità di cui vengono accusate le ditte cinesi.

I migranti cinesi che hanno dato vita alla rivolta di Osmannoro, quindi, volevano forse protestare perché ci ostiniamo a far finta di non vedere che oggi quello che le ditte finali – incluse le grandi firme – pretendono dai terzisti e quello che le istituzioni richiedono ai terzisti fanno a pugni tra loro.

Chi è alla guida delle istituzioni dovrebbe allora decidersi: se vuole distruggere l’industria della moda italiana accanendosi semplicemente contro l’anello debole della catena, se vuole continuare a far finta di niente (come sostanzialmente si è fatto nei decenni scorsi e come al di fuori della Toscana si continua a fare), o se se intende almeno provare a cercare altre soluzioni.

Certo, trovare altre soluzioni non è facile, anche perché quello che emerge come un problema di «illegalità lavorativa» hic et nunc a Prato non è il frutto di dinamiche solo locali, ma è legato agli interessi di una molteplicità di attori che includono lo Stato e le sue politiche migratorie e lavorative, l’industria della moda nel suo insieme, e addirittura nuove forme di lavoro che si impongono a livello globale e che sono difficilmente contenibili nei confini nazionali e ancor meno nei confini distrettuali.

 

[Qui la nota ricevuta in merito all'articolo dall’Ufficio stampa del Comune di Prato]