Making Heimat – The Arrival City: questo è il tema del padiglione tedesco alla Biennale di Architettura di Venezia, che per accogliere gli arrivi di nuovi abitanti ha scelto simbolicamente di creare quattro grandi aperture nelle sue pareti perimetrali, per aumentare la propria permeabilità. Questa edizione della Biennale è stata intitolata dal curatore, il cileno Alejandro Aravena, Reporting from the front e sembra che per molte partecipazioni, sia nazionali che di singoli studi invitati, l’aspetto cruciale cui fare fronte sia il tema dell’abitare, o meglio, del «dare casa», in particolare alle persone che devono abbandonare la propria.

Heimat è una parola che non ha un corrispondente né in inglese né in italiano: la sua radice è la casa – heim – intesa in un senso profondo, il luogo cui si è radicati, dove sta l'infanzia, l’origine. Non è la patria, la terra dei padri cui rendere onore. È qualcosa di più intimo. Il termine sembra nascere nel momento in cui la trasformazione e l’unificazione della Germania in uno Stato moderno stavano provocando spostamenti di popoli in Europa centrale. A quel momento ne seguirono altri, come il 1946, in cui molti tedeschi «etnici» – e non solo colonizzatori mandati dal nazismo – furono «rimpatriati» in Germania: una patria che non era tuttavia la loro Heimat. Per dare una casa a tutte queste persone (circa un milione), la Germania federale strutturò un piano urbanistico imponente che, affiancandosi alla ricostruzione, ampliò con nuove Siedlungen residenziali le principali città. In molti di questi nuovi quartieri la via principale prese il nome di Konigsbergstrasse, per non dimenticare la capitale della Prussia, divenuta parte dell’Urss e a tutt’oggi in terra russa. Lo studio BeL di Berlino propone per il prossimo decennio un analogo piano di sviluppo delle cittàNeubau – per accogliere i rifugiati e dare loro casa (studiando gli errori del passato per creare abitazioni di migliore qualità, quartieri meglio integrati e collegati). E chissà che tra qualche decennio alcune vie non prenderanno la denominazione di Aleppoer Weg.

Ben altro tono, per declinare lo stesso tema, usa il padiglione della Grecia: l’allestimento prevede un’arena per incontri, per dibattiti e workshop sull’Europa e quello che vuole essere. Tutto attorno si dispiegano materiali di reportage dai campi per i profughi, sulla crisi economica, sulla crisi della professione di architetto. È difficile guardare e approfondire tutto, ma ci sono documenti che parlano in modo inequivocabile, come un album di disegni fatti dai bambini rifugiati a Idomeni.

[Calais, A World of Fragile Parts]

Nella geografia cangiante dell’emergenza sono stati tanti i campi, ufficiali o abusivi, creati da/per i migranti negli ultimi venti anni. Quello probabilmente più longevo è la «giungla» di Calais: una baraccopoli all’interno di un’area recintata, controllata dai militari e isolata dalle vie di comunicazione, dove si fermano migliaia di migranti in attesa di riuscire a passare la Manica. Alla fine di febbraio di quest’anno ne è iniziato lo sgombero, tra fortissime tensioni.

Far rientrare queste vicende all’interno di una mostra di architettura è un fatto delicatissimo, ma allo stesso tempo cruciale: la necessità di creare strutture di accoglienza temporanee, o più a lungo termine, che possano fare fronte all’emergenza è sicuramente un tema architettonico e urbanistico. Tra i vari progetti presentati di riflessione sul tema, quello di Rahul Mehrotra e Felipe Vera propone un’analisi delle ephemeral cities più popolose, nate per motivi religiosi (come il Kumbh Mela, festività indù per la quale milioni di indiani ogni dodici anni si recano sulle rive del Gange per immergersi nel fiume), ma anche di protezione civile (per i terremoti o altre catastrofi naturali) oppure per motivi legati alla sicurezza e alla guerra. L’indagine mette in luce gli aspetti positivi ma anche i rischi derivanti dalla costruzione di queste forme urbane temporanee: tra i principali, quello che la loro temporaneità si allunghi troppo.

I rifugi della giungla di Calais sono stati costruiti proprio per far fronte alla mancanza di strutture organizzate: frammenti di legno, teli di plastica, materiale di risulta o di scarto sono stati usati per venire incontro all’esigenza di una casa. A questa necessità, anzi, a questo diritto, è dedicato il lavoro proposto dal Sam Jacob Studio (nella sezione della mostra curata dal Victoria & Albert Museum, A World of Fragile Parts): la copia in scala 1:1 di uno di questi rifugi ottenuta tramite una scansione 3D e realizzata in Verolith, materiale costruttivo a base di perlite. Un monumento all’emergenza, ai diritti umani, alla resilienza.

Una delle peculiarità di questa Biennale è quella di usare l’architettura anche come modalità di analisi dei fatti, anche di fronte ad aspetti apparentemente molto lontani dalla dimensione progettuale. Una delle declinazioni più inattese è quella della forensic architecture: l’architettura usata al fine di ricerca di prove e dimostrazione in ambito processuale. Il gruppo di ricerca guidato da Eyal Weizman sceglie programmaticamente, nelle ricostruzioni di attacchi di droni ad abitazioni civili a Gaza e in Pakistan, di definire «forense» il proprio approccio, ma riconoscendo come precursore di questo uso dell’architettura Robert Jan Val Pelt, a sua volta presente in mostra con The Evidence Room: di nuovo la presentazione di modelli in scala 1:1, realizzati in gesso dagli studenti della Waterloo School of Architecture, che riproducono gli oggetti salienti e i dettagli di progetto della camera a gas di Auschwitz.

[The Evidence Room]

Van Pelt, storico dell’arte e autore di uno studio sulla storia del campo (Auschwitz, 1270 to the Present, Norton, 1996) venne chiamato a testimoniare nel 1996 nel processo per diffamazione intentato dallo storico negazionista David Irving contro Deborah Lipstadt e l’editore Penguin Books: studiando le piante, le sezioni degli edifici e le fotografie del campo Van Pelt dimostrò, analizzando le modalità di apertura delle porte, la presenza di spionicini blindati e altri elementi minuti ma fondamentali nella loro funzionalità, e con essi l’esistenza e la modalità operativa delle camere a gas. Secondo Adachiara Zevi (in un articolo di prossima pubblicazione su «Pagine Ebraiche») questi gessi bianchi di difficile decifrazione (com’è la natura, spesso, dei documenti probanti) si ergono come «monumenti ai carnefici», per ricordarci come anche la progettazione degli elementi funzionali contribuisca alla realizzazione dei crimini.