Che cosa hanno in comune Volkswagen e Deutsche Bank? Bastano alcuni numeri. Nel giro di un anno Volkswagen ha perso metà del suo valore in Borsa. Nel frattempo fioccano le richieste di risarcimento. L’ultima è della Norvegia, azionista della casa di Wolfsburg con il 2%. Per i prossimi anni le maestranze Volkswagen lavoreranno per pagare gli avvocati. Stesso destino di Deutsche Bank. In un trimestre le spese legali hanno raggiunto la cifra stratosferica di 1,5 miliardi, mentre il titolo in borsa da 20 del 2008 oscilla tra 14 e 15 euro. La stampa tedesca ha calcolato che le esposizioni in titoli tossici raggiunge la cifra spaventosa di 50 bilioni di euro.

Ai titoli italiani si fanno le pulci perchè ritenuti a forte rischio, mentre di questa mina vagante nessuno parla volentieri, né a Berlino né a Bruxelles. Il motivo è semplice: se Deutsche Bank e Volkswagen dovessero saltare sarebbe la stessa struttura economica tedesca a implodere, e con essa quella europea. Ciò che rende queste entità economiche così diverse e pur tuttavia simili è il fatto che sono strettamente interconnesse con lo Stato tedesco. Il Land della Bassa Sassonia, sede della casa automoblistica, detiene il 20% delle azioni e poiché nel frattempo la famiglia Porsche è entrata nell’azionariato il governo regionale ha voluto tenersi la golden share, il diritto di veto nelle decisione strategiche. Ciò rende di fatto il gigante di Wolfsburg un’azienda a tutela pubblica e al contempo a gestione privata. Un carattere bifronte che caratterizza oggi anche Deutsche Bank. In quanto banca di sistema, strategica per il Paese, infatti, Deutsche Bank sa di poter contare sull’appoggio pubblico. Fanno testo gli interventi all’inizio della crisi tra il 2007 e il 2008 a favore di Hypo Real Estate salvata dal governo tedesco. Altri tempi, certo; ma si tratta pur sempre di esempi di come l’economia tedesca sia a sistema.

Proprio questo è il punto controverso. Perchè il modello renano che ha fatto della Germania un fortino quasi inespugnabile di fronte alle nuove sfide sembra non tenere più. Sergio Marchionne non si è dimenticato il trattamento riservatogli nel 2009, quando sembrava che Fiat ripetesse con Opel il colpo andato a segno con Chrysler. Gli fecero fare anticamera per poi dirgli che anche il consiglio di fabbrica Opel non voleva gli italiani a Ruesselsheim. Meglio i russi. Alla fine gli americani di GM si tennero l’azienda, ma fu chiaro che la tutela degli interessi tedeschi in Europa veniva prima del libero mercato. Di questo i tedeschi sembrano non rendersi conto; solo negli ultimi tempi la stampa ha cominciato a occuparsene. 

A Volkswagen e Deutsche Bank, ora in gravi difficoltà, è mancato il controllo. Tutti sapevano che a Bruxelles le marche automobilistiche tedesche facevano il bello e il cattivo tempo, sicure di poter contare sulla protezione di Berlino. E non è un caso se il «trucco» per falsare i dati sui gas di scarico taroccati è stato scoperto negli Stati Uniti. Se è vero che anche altre case automobilistiche hanno manipolato i dati di emissione, l’azione coordinata a Wolfsburg è stata studiata a tavolino, con precisione teutonica e acribia professionale, tanto da far credere ai responsabili di non potere mai essere scoperta. Quando si crede perfetta, la superiorità tecnica fa premio della giustizia. Un azzardo che nell’Unione europea funziona perchè tutti si sentono inferiori alla Germania.

Proprio questo atteggiamento psicologico di sudditanza verso Berlino ha permesso al governo tedesco di rallentare le riforme di apertura del mercato. Il settore bancario è ancora segnato da un sistema incrociato che protegge l’economia tedesca dalle incursioni non desiderate. Volkswagen e Deutsche Bank si leccano le ferite per aver creduto di potere tutto in virtù delle loro performance. Vittime in qualche modo anch’esse dei quella sorta di «dannazione» tedesca che fa perdere il senso del limite. Inebriate dalla propria forza e abbacinate dal rispetto altrui non conoscono freni.

Una sindrome da cui non è immune neppure la cancelliera Merkel, talmente certa di aver l’ultima parola in Europa da non essersi neanche posta il problema. Ha aperto le frontiere ai rifugiati senza consultare gli altri membri dell'Unione. Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, non sono forse la periferia economica del suo impero? A quanto ammonterebbe il Pil della Slovacchia se le ditte tedesche ritirassero i loro investimenti? Ma quando è troppo è troppo e anche i piccoli sanno arrabbiarsi. Risultato: i rifugiati se li prende tutti la Germania e il potente cancelliere va a Canossa dall’autocrate Erdogan a chiedere aiuto. Adesso è in casa sua che fanno le pulci e l'AfD avanza. A Mannheim, città industriale per eccellenza, tutti i suoi candidati siedono nel Parlamento regionale. E non stiamo parlando della Sassonia Anhalt, il Land più povero della Repubblica.

Una domanda è quindi d’obbligo: è in grado questa Germania di far fronte ai suoi doveri di guida politica in Europa? Può il cittadino europeo affidarsi alla responsabilità tedesca nella tutela dei suoi legittimi interessi nazionali senza essere colto dal dubbio che le linee guida di Berlino si riducono a un solo, semplice assunto, vale a dire che tutto ciò che fa bene alla Germania fa bene anche all'Europa?

Nei giorno scorsi il ministro tedesco dei Trasporti ha convocato i dirigenti Fiat a Berlino per imputare all’azienda italiana la violazione delle norme in materia di emissioni. Marchionne non accoglie l’invito e manda a dire che se vogliono parlare con lui devono passare dai suoi avvocati. Alexander Dobrindt, il ministro dei Trasporti che vuole introdurre in Germania il pedaggio autostradale solo per gli stranieri, non la prende bene. Forse i suoi collaboratori non l’hanno avvertito che per Fiat fa fede il diritto italiano e non quello tedesco? Per essere leader in Europa la Germania deve prima fare i conti con se stessa.