Lo dico subito: la mia è una tesi provocatoria. Da storico, non da specialista. Ma credo valga la pena di discuterla, dato che gli esperti economisti e i giuslavoristi non si limitano a elaborare teorie ma assumono compiti operativi, dirigono con grande sicumera le istituzioni preposte alla previdenza, assumendosi il rischio di portare tutto il sistema sul ciglio del baratro. Anche ricorrendo alle ormai famose «lettere arancioni». Ma tutte le proiezioni contenute in queste lettere si basano su una visione della società del tutto superata, oltre che sulla totale imprevedibilità dei dati di base dei decenni a venire.

Tutti i tentativi di rammendare la struttura del Welfare pensionistico ideato e costruito nella Germania bismarkiana di fine Ottocento sulla base della fabbrica e dell’impresa e diffuso in diverse varianti in tutto l’Occidente sono falliti come palliativi inutili o dannosi: ritardo dell’età del pensionamento, ricorso a polizze private soggette agli alti e bassi dei mercati nonché alla logica del profitto dei grandi fondi finanziari ecc. L’esplosione della disoccupazione giovanile e il restringimento del periodo di vita attiva nonostante il ritardo del pensionamento sono sotto gli occhi di tutti. Per non parlare delle ultime trovate di «tecnici» che, dopo aver ricevuto in gestione scatole enormi di potere, annunciano grandi provvedimenti di risanamento, di ricalcolo, o altre trovate geniali, quali il taglio «compassionevole» delle pensioni più alte per distribuire i centesimi ricavati sui milioni di pensioni al minimo. Con i politici, di destra e di sinistra, che nella maggior parte dei casi stanno al gioco e, anzi, lo alimentano alla ricerca del consenso.

Il problema è che tutto il sistema pensionistico, costruito come un vestito sulla prima e sulla seconda rivoluzione industriale e che ha protetto la vecchiaia dei dipendenti privati e pubblici, va superato prima che le folle dei giovani, che ora appaiono come precari perpetui e tolleranti, lo distruggano con un atto di disperazione.

Prendiamo ad esempio un presente che è già un nostro futuro: a Shangai una fabbrica di componenti elettronici diminuisce il personale dipendente da 10.000 a 500 persone, mantenendo integra, anzi aumentando, la propria capacità produttiva. Secondo le regole del nostro contributivo, di quanto si dovrebbero aumentare i contribuiti pensionistici dei 500 rimasti? Cosa succederebbe ai 9.500 che devono abbandonare il lavoro e che rimangono consumatori? Non conosco abbastanza la Cina, ma penso che le risposte possibili consisterebbero soltanto in un esodo di massa dal Welfare modello europeo verso una stratificazione di tipo tradizionale nell’immenso Paese, oppure in una militarizzazione totale del Celeste Impero. Questa seconda soluzione mi appare come la più probabile e, in ogni caso, costituisce il mio incubo.

Ma in questo presente/futuro ci siamo già anche noi. Non abbiamo soluzioni, ma il problema non può non porsi nei termini politici più radicali. Almeno non sul piano tecnocratico.