La Costituzione italiana inserisce la libertà religiosa tra i diritti fondamentali dell’uomo. Il Corano, al versetto 8 della sura Al-Insan («l’Uomo»), annovera i detenuti tra i «bisognosi di attenzioni» come l’orfano e il povero.

In un carcere italiano c’è una piccola moschea per ogni piano dei sette reparti dell’istituto. La direzione ha ceduto gli spazi ai detenuti di fede islamica, che li hanno organizzati e gestiti in autonomia. Il console del Marocco ha regalato loro molti tappeti per la preghiera, in ogni locale c’è almeno un Corano. I poliziotti non entrano con le scarpe, per la perquisizione. Il venerdì, giorno della preghiera settimanale, gli islamici di ogni sezione si riuniscono in un unico spazio, perché la loro religione prevede che i fedeli siano almeno quindici, quel giorno. Nel mese di Ramadam viene dato loro un unico pasto, alla sera. Al termine del Ramadam i detenuti fanno festa invitando, se lo desiderano, anche compagni di diverse fedi religiose. Gli islamici, in quel luogo di pena, celebrano tutte le feste rituali previste e il regime alimentare viene garantito loro secondo le prescrizioni del Corano. Tutto ciò avviene, semplicemente, perché l’assistenza religiosa è un diritto di tutti i detenuti, e l’istituzione penitenziaria è tenuta a garantirla, insieme agli altri diritti fondamentali dell’uomo.

In quel carcere, tra l’altro, i detenuti hanno dato vita al «gruppo migranti»: con la guida di un operatore, gli stranieri (per lo più sforniti di permesso di soggiorno) si interrogano con realismo sulle loro prospettive future, mettono in comune le reciproche risorse, scambiano esperienze, culture, stili di vita. Il gruppo di lavoro ha prodotto un video, in cui ciascun detenuto racconta il viaggio, il sogno di un’esistenza diversa. Il documentario è stato inviato a Lampedusa in occasione dell’inaugurazione della porta di Paladini, qualche anno fa. E un numero speciale del giornale interno all’istituto è stato dedicato al tema della migrazione. Tutto questo dal 2002, molto prima che le aggressioni del terrorismo costringessero l’amministrazione a interrogarsi sulle condizioni dei detenuti islamici.

Il carcere diventa cosi, piuttosto che il luogo della sola repressione, anche una finestra sul dramma della migrazione dalla quale poter partecipare, da protagonisti, al debat publique su un dramma mondiale (e, ahimè, sull’insensatezza di tante risposte politiche).

Il nostro ordinamento prevede la sanzione della privazione della libertà: ergo, la pena è costituita dal solo muro di cinta, da cui non si può uscire; all’interno della città murata vanno garantiti tutti i diritti compatibili con la privazione della libertà. Va definitivamente superata la logica che subordina ogni forma di esercizio dei diritti alla buona condotta. Negli anni si è ben compreso come questo modo di concepire la pena detentiva non solo favorisce il riemergere di potenzialità e risorse umane schiacciate dal peso dell’afflittività, ma costruisce sicurezza sociale, perché abbatte considerevolmente il tasso di recidiva. Oggi il problema è che il carcere rischia di diventare il luogo della radicalizzazione e del reclutamento di soldati del terrorismo islamico. Complice la rabbia generata dalle condizioni di afflittiva cattività, i reclusi di fede islamica rischiano di aderire con più facilità al proselitismo dei cosiddetti «imam fai da te», reclutatori di giovani forze nell’esercito del male. Per questo è necessario correre, quanto prima, ai ripari.

Ci si è interrogati spesso, nel corso di questi anni, su come intervenire. Secondo i più recenti dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, su un totale di 10.400 ospiti di fede islamica, i detenuti radicalizzati sarebbero 19, sistemati in sezioni di alta sicurezza. Circa 200 sarebbero quelli «sotto attenzione». Ma è ben evidente che il fenomeno è difficilmente quantificabile e le cifre potrebbero essere molto più alte. In Italia sono 52 gli istituti di pena dotati di vere e proprie moschee, in altri 132 ci sono locali destinati alla preghiera. L’amministrazione penitenziaria ha stipulato un protocollo d’intesa con l’Ucoi (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia) per favorire l’accesso dei mediatori culturali e dei ministri di culto in otto penitenziari delle maggiori città italiane, dove è più consistente la presenza di detenuti islamici. Il diritto dei detenuti diventa un’esigenza per l’amministrazione, per prevenire quelli che in gergo si chiamano «eventi critici»: nella fattispecie, di considerevole portata, peraltro. Ci si accorge che la religione può diventare strumento che mina la sicurezza sociale e, con aperture timidissime all’esercizio di un diritto fondamentale, si cerca di porre rimedio.

La storia che ho appena raccontato dimostra che non è questa la strada e il ragionamento può - e deve - essere ribaltato. La sicurezza dei cittadini, liberi e detenuti, passa sempre attraverso l’esercizio dei diritti. Solo il riconoscimento dell’identità e delle potenzialità di ciascuno può ridurre il rischio di gesti violenti. I diritti vanno garantiti a tutti, non solo quando è necessario alle istituzioni per capire la portata di un fenomeno altamente rischioso. Ça va sans dire, tutto ciò vale, a maggior ragione, per i cittadini liberi. Le grandi città dove non c’è una moschea sono molto più pericolose di quelle che ne hanno almeno una. E se non vogliamo proprio considerare il dettato costituzionale, riflettiamo almeno su questo semplice dato di fatto e poniamo le basi perché siano costruite.