Con un referendum ad hoc, il 17 aprile, siamo invitati a esprimere il nostro parere sull’apertura dello spazio marittimo alla ricerca ed estrazione di idrocarburi. La stampa ne parla molto poco e ciò non sorprende; altre sembrano essere le questioni che appassionano l’opinione pubblica. Ma a ben guardare l’appuntamento può essere un momento significativo per manifestare le nostre preferenze sulla direzione verso cui spingere il Paese, schiacciato dall’incapacità di rinnovarsi e di generare opportunità per i propri giovani.

Non voglio entrare nel merito di questioni ambientali, su cui non ho particolari competenze, quanto piuttosto sul lato economico della scelta che siamo chiamati a compiere. L’estrazione di combustibili fossili dai nostri mari è realmente un’opportunità? Può incidere in modo significativo sulla sicurezza degli approvvigionamenti energetici dell’Italia?

Un appello accorato in favore dell’industria del petrolio è stato pubblicato di recente dal professor Alberto Clò, che enfatizza molto il ruolo positivo sull’economia italiana degli investimenti potenzialmente avviati con l’attività estrattiva.

Indirizzare i nostri investimenti in questa direzione è un errore strategico, mirato ad allungare la vita di settori industriali lentamente avviati al margine dell’economia

Al contrario, sono convinto che indirizzare i nostri investimenti in questa direzione sia un errore strategico, mirato ad allungare la vita di settori industriali lentamente avviati al margine dell’economia. Non voglio dire che petrolio e gas non manterranno per vari decenni un ruolo centrale nell’economia mondiale, ma piuttosto che l’attuale capacità produttiva è in grado di coprire ampiamente la domanda futura, senza avviare nuovi campi di potenzialità limitata e costi superiori alla media mondiale. Agli attuali prezzi del greggio, tra l’altro, non sono convinto che le imprese metterebbero in atto i programmi di investimento che il «sì» referendario auspica.

Teniamo conto che un progetto di questo tipo si articola su un orizzonte temporale di almeno venticinque anni. Ma nel 2040, se crediamo alla strategia energetica europea al 2050 che prevede una decarbonizzazione dell’economia praticamente integrale, quale sarà la domanda di idrocarburi? Prossima allo zero, rispetto ad oggi.

Tra l’altro, le quantità di idrocarburi di cui si parla non sono tali da cambiare in modo sostanziale la dipendenza nazionale dalle fonti fossili di importazione, né tantomeno tali da pagarci il debito pubblico, come avviene per Paesi esportatori come la Norvegia.

Anche l’aspetto occupazionale appare poco convincente: portare l’energia nelle nostre case e aziende comporta lavoro, con qualsiasi fonte. Possiamo discutere molto su quale sia il modello energetico più intensivo sul piano del lavoro, ma è difficile non vedere che le fonti distribuite creano lavoro localmente, dove la nostra economia è più debole. E le imprese italiane del settore petrolifero, che sono veramente all’avanguardia mondiale, presenti ovunque nel globo e le cui complessità tecniche sono elevate, hanno proprio bisogno di questi investimenti? Io non credo; il loro mercato è il mondo e con ruoli primari nei grandi investimenti mondiali stanno sostenendo la nostra economia.

Allora dobbiamo cercare di essere coerenti: applaudiamo al timido accordo raggiunto a Parigi alla Cop21, auspicando un’azione efficace per decarbonizzare l’economia, oppure ignoriamo i vincoli climatici e continuiamo a guardare all’economia attuale, preservandone equilibri e traiettorie tecnologiche? Le due cose non sono conciliabili, per quanto il nostro governo provi a difendere la sua posizione altalenante.

Ma indicare il settore degli idrocarburi come una priorità nazionale, come si fa assegnando a questa attività nuove concessioni, significa di fatto togliere risorse (economiche, normative, finanziarie ecc.) alle nuove fonti energetiche, nel momento in cui a livello mondiale si sta vivendo una trasformazione profonda e irreversibile verso un nuovo modello energetico – in Germania prende il nome di «Energiewende» – che è di fatto comune alle scelte di gran parte dei Paesi con domanda significativa di energia.

Perché non si sceglie di dare alla politica energetica nazionale coerenza e forza nel processo di rinnovamento, con il coraggio di gestire la transizione gradualmente, guardando agli aspetti di innovazione e leadership tecnologica nel campo della nuova energia, e si tiene invece attivo il supporto ai settori tradizionali, nel timore di dispiacere a soggetti pesanti sul piano politico?

In condizioni di risorse scarse il tentativo di non scontentare nessuno alla fine scontenterà tutti, lasciandoci privi di imprese nuove e con investimenti non remunerativi, da accollare magari sulle spalle della comunità. Non sono sufficienti i casi delle centrali elettriche inutilizzate o dei rigassificatori a tasso di utilizzo nullo per farci capire che il mondo guarda altrove?

Non sono dunque tanto gli aspetti ambientali che pure preoccupano, quanto quelli economici che mi spingono a dire che esprimersi al referendum è importante, per aiutare il nostro Paese a guardare al futuro, senza timore di accompagnare l’economia verso nuovi equilibri.