In periodi di magra informativa, si sa, l’appetito di notizie e di clamore mediatico può spingere alla reinvenzione di informazioni note. È quanto accaduto il 16 febbraio, quando "La Stampa" ha annunciato che il governo Renzi ha deciso che per l’Italia è arrivato il momento di fare i conti con il passato ed è pronto a rompere un tabù che dura da oltre settant'anni: il Paese avrà un museo dedicato al fascismo. Predappio è la sede prevista per il museo, al quale il governo garantirebbe un contributo di due su cinque dei milioni di euro necessari alla realizzazione. Per insaporire la notizia, il quotidiano lancia anche un sondaggio, chiedendo ai lettori di rispondere al seguente e malizioso quesito: "Due milioni di euro per finanziare il museo del fascismo a Predappio: sei d'accordo con la scelta del governo?". Non ci soffermeremo sullo scontato esito negativo.

Preme piuttosto notare che l’idea di erigere un museo non è una novità, poiché il “cosa fare” di/a Predappio è una questione ricorrente. È del 30 luglio 2014 il documento che annuncia il riuso della ex Casa del fascio, dove istituire un centro di ricerca e documentazione sulla storia del Novecento dotato anche di spazi espositivi. "Il Fatto quotidiano", "Il Giornale", "L’Espresso" e altre testate ancora ne scrivono tra il 2014 e il 2015, chiamando a esprimersi studiosi di vario orientamento. Ma nel febbraio 2016 accade il fatto nuovo: il governo sostiene questo progetto ed è disposto a investirvi significative risorse. L’evento fa (di nuovo) notizia, suscitando il rituale referendum pro o contro, con una tempestiva quanto inusuale micro-mobilitazione di studiosi – tra i quali i sostenitori del progetto del 2014 – in una sorta di comitato del “sì”. In 48 ore una cinquantina di storici, non solo italiani, firmano un appello a sostegno del sindaco di Predappio, Giorgio Frassineti, determinato fautore di un museo che possa educare e coinvolgere attorno ai valori della conoscenza e della verità storica i cittadini, che hanno ormai introiettato da tempo i valori presenti nella nostra Costituzione.

Come si può essere contrari a una simile iniziativa? Tanto più, apprendiamo dalle interviste al sindaco e dai reportage giornalistici, che il museo avrebbe anche una funzione di deterrenza dei pellegrinaggi nostalgici alla tomba del duce; oltre che verso la “storiografia dei gadgets” che imperversa nel paese romagnolo, nei cui negozi si possono acquistare manganelli fedelmente riprodotti dagli originali e bottiglie – non di ricino, si badi bene, ma di Sangiovese – con etichette su cui campeggia la mussoliniana mascella. A riprova, peraltro, che forse non proprio tutti i cittadini hanno fatto propri i valori della Costituzione, nata antifascista.

Gli storici dunque si schierano. Modernizzatori versus misoneisti, riformatori versus conservatori: lo scontro appare netto, tra chi vuole cogliere l’opportunità di tramandare alle giovani generazioni una pagina di storia del XX secolo e chi viene raffigurato come un apota che non si lascia ingannare dalle velleità di un sindaco di paese; tra chi contrasta l’uso di Predappio come luogo identitario del neofascismo, offrendo proprio lì una lettura scientificamente solida della dittatura fascista; e chi invece si aggrappa alla stantia retorica antifascista della Prima Repubblica. Come dubitare da che parte stare?

Ogni nuovo spazio di riflessione e approfondimento è certo da salutare favorevolmente. A maggior ragione in un Paese senza dubbio dimentico ed elusivo dell’esperienza fascista, con la quale mai si sono davvero fatti i conti nella coscienza civile. Proprio in considerazione della rilevanza del tema, è però legittimo chiedersi perché ridurre il discorso alla logica binaria del “sì” o “no”, della polarizzazione retorica – e non reale – tra chi accetta le sfide del presente e chi si arrocca nella difesa di un passato che non c’è più. Ammesso, e per nulla concesso, che ciò possa funzionare sui giornali, perché anche tra studiosi semplificare e banalizzare in una logica di schieramento una questione di rilievo come la memoria e il discorso pubblico sul fascismo? Più che la storia del fascismo in sé, oggetto non da oggi di serio e competente esercizio professionale degli storici, è infatti la funzione pedagogica e civile del ricordo a essere in gioco.

Del resto, perché scegliere Predappio? Il luogo non ha alcuna particolare rilevanza nella storia del fascismo, se non per aver dato i natali a Mussolini e, avendone accolto i resti nel 1957, per essere divenuta meta di pellegrinaggio e rievocazione nostalgica. Perché allora non promuovere un museo Mussolini, piuttosto che appiattire sulla figura del duce il fascismo? O perché non dare vita a un centro studi sul neofascismo, non solo in Italia, tanto più in tempi di risveglio della destra radicale in tutta Europa? E perché non insistere e premere affinché i molti luoghi della memoria del fascismo e dei suoi crimini siano finalmente consegnati a una pedagogia pubblica del ricordo e a una riflessione civile sulla storia nazionale? A questo dovrebbe soccorrere il tanto evocato esempio tedesco, dei numerosi musei e luoghi di memoria promossi in Germania. In quel Paese alla rimozione postbellica dell’esperienza nazista ha fatto seguito, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, un intenso e prolungato dibattito, civile e storiografico.

Si tratta di temi complessi e spinosi, che non possono risolversi in appelli e schieramenti senza che la complessità del reale svanisca, lo spazio del confronto si restringa, la riflessione si isterilisca. Che questa logica sia assunta anche da chi, per professione, dovrebbe praticare il ragionamento e non la giustapposizione delle parti è davvero sconfortante. C’è da interrogarsi sul perché ciò accada. Vien da pensare che agiscano al contempo una frustrazione e un’illusione: la frustrazione per l’evaporazione – con l’appannarsi del rapporto della società attuale con il passato – del proprio ruolo civile e sociale; e l’illusione di poterlo almeno in parte ritrovare schierandosi col “nuovo” che avanza.

È la spia di una sostanziale subalternità della cultura alla politica, o, peggio, di uno schiacciamento sull’attualità. Non più consiglieri del Principe, non più intellettuali, gli storici sembrano vestire i panni di “tecnici” illuminati, partecipi di un “nuovo” progetto di pedagogia civile, consono alla “nuova” politica, e che si concretizza in luoghi e ambienti anch’essi “nuovi”, altri e diversi rispetto alle strutture e agli istituti già operativi, non a caso lasciati agonizzare nell’assenza di risorse e nell’inazione progettuale.

Che questa attitudine celi anche l’aspirazione a una versione condivisa dei fatti storici, in base alla quale stabilire torti e ragioni? Ciò comporterebbe la rinuncia all’intelligenza critica del passato, che solo studiosi eccentrici alle istituzioni e all’industria culturale possono praticare in forma di sistematica delegittimazione delle interpretazioni strumentali a interessi particolari.