L'isola che non c'è. Il 25 ottobre scorso si è aperta una nuova fase nella crisi politica che da ormai due decenni attanaglia l’arcipelago di Zanzibar, e che solo alcuni anni fa pareva avviata a essere risolta. Dopo l’annuncio dei primi risultati parziali delle elezioni, che vedevano in vantaggio l’opposizione del Civic United Front (Cuf), la Zanzibar Electoral Commission ha annullato le elezioni, affermando che erano state commesse delle irregolarità. Davanti a una sconfitta giudicata inevitabile ‒ considerati i margini risicati con cui il Chama cha Mapinduzi (Ccm), al potere sulle isole dalla rivoluzione nel 1964, aveva vinto le precedenti tornate elettorali ‒ il governo ha quindi deciso di ricorrere alla misura estrema della sospensione del processo elettorale.

La situazione che si è venuta a creare a Zanzibar rappresenta un brutto grattacapo per John Mugufuli, il nuovo presidente della Tanzania ‒ anche lui proveniente dalle fila del Ccm ‒ non ultimo a causa della posizione adottata dagli Stati Uniti, che hanno congelato la concessione di nuovi aiuti alla Tanzania. Quest’ultima costituisce un peculiare esperimento istituzionale, essendo nata nel 1964 come un’Unione tra l’allora Tanganyika e Zanzibar. La Tanzania non è una federazione, né uno Stato unitario. Mentre il governo dell’Unione ha assorbito quello del Tanganyika ed esercita alcune competenze riservate (politica estera, di difesa, monetaria ecc.) sull’intero territorio nazionale, l’arcipelago di Zanzibar ha mantenuto una certa autonomia politica ed elegge un suo presidente e un suo Parlamento.

Le tensioni politiche nell’arcipelago affondano le radici nella lotta per il potere che ha contrapposto Ccm e Cuf dall’inizio degli anni Novanta, quando la competizione multipartitica venne reintrodotta nel Paese. L’ex partito unico, il Ccm, non ha esitato a fare ricorso ai brogli e alla violenza politica per rimanere al potere. A dispetto della transizione al multipartitismo, il Ccm a Zanzibar non ha mai avviato un reale processo di democratizzazione nelle istituzioni dello Stato, mentre il grave problema della povertà è rimasto irrisolto.

Dal canto suo, il Cuf ha lanciato la sua sfida al Ccm facendo appello all’identità islamica dell’arcipelago e al rafforzamento dell’autonomia politica delle isole nel contesto dell’Unione, promettendo allo stesso tempo un cambio di marcia nella promozione dello sviluppo economico. Accusato dal Ccm di mettere a repentaglio la stabilità politica e sociale dell’Unione, di voler rompere quest’ultima e di coltivare rapporti ambigui con gruppi radicali islamici locali e internazionali, il Cuf ha sempre raccolto un forte sostegno elettorale a Zanzibar.

Il culmine nella tensione tra i due partiti si registrò in occasione delle elezioni del 2000, precedute e seguite da gravi violenze di cui rimasero vittime alcune decine di sostenitori del Cuf. Dopo alcuni tentativi fallimentari di riconciliazione tra i due partiti, sotto le pressioni internazionali nel 2009 si giunse a un accordo, poi approvato tramite referendum, che prevedeva la formazione di un governo di unità nazionale dopo le elezioni del 2010, con ministri tratti dalle fila di tutti i partiti rappresentati nel Parlamento dell’arcipelago e la carica di vice-presidente riservata al leader del partito che sarebbe risultato secondo alle elezioni. In questo modo, le elezioni del 2010 si svolsero pacificamente.

Nonostante la risicata vittoria del candidato del Ccm alla presidenza (50,1% dei voti), per la prima volta il Cuf, la cui richiesta di istituire un modello di gestione condivisa del potere era stata finalmente realizzata, aveva riconosciuto l’esito delle elezioni. La situazione che si è venuta a creare dopo l’annullamento delle elezioni lo scorso mese di ottobre ha posto drammaticamente in questione la normalizzazione dei rapporti tra Cuf e Ccm e messo a nudo l’ambivalenza di quest’ultimo nei confronti del processo di democratizzazione.

A prestare man forte al Cuf sono intervenuti altri partiti di opposizione, in particolare il Chama cha Maendeleo na Demokrasia (Chadema), che alle elezioni presidenziali sulla terraferma ha rappresentato una seria minaccia per il Ccm, a sua volta ancora imbattuto dall’indipendenza del Tanganyika nel 1961. Cuf, Chadema e altri partiti di opposizione avevano infatti creato un’alleanza elettorale nel 2015, facendo della questione della riforma delle istituzioni dell’Unione (e quindi di una maggiore autonomia per Zanzibar e della creazione di un governo del Tanganyika) uno dei loro cavalli di battaglia. In questo, furono facilitati dalla gestione maldestra del processo di riforma costituzionale da parte del precedente presidente dell’Unione, Jakaya Kikwete.

Quando il Ccm si è accorto di non riuscire più a mantenere la riforma costituzionale all’interno dei binari prefissati, non solo ha imposto una revisione della bozza di nuova Costituzione redatta da una commissione nominata da Kikwete in modo da eliminare il riferimento alla creazione di un governo del Tanganyika; ma ha anche deciso di rinviare a un futuro imprecisato il referendum per l’approvazione della nuova Costituzione. Tutti i nodi mai risolti del processo di democratizzazione verticistico sono oggi giunti al pettine, in primis la questione di Zanzibar, che, come osservò alcuni anni fa lo studioso tanzaniano Issa Shivji, ha espresso tutti i limiti e le contraddizioni di tale processo.

All’inizio di febbraio il governo di Zanzibar ha annunciato che nuove elezioni si svolgeranno nell’arcipelago il prossimo 20 marzo. Annuncio immediatamente seguito dalla decisione del Cuf di boicottare le nuove elezioni e dalle nuove critiche dei donatori occidentali alla leadership del Ccm per la gestione della crisi. Crisi che, a giudicare dalle premesse, rimane lontana dall’essere risolta.