Due giorni fa, in radio, un ascoltatore chiedeva: “Ma se proprio non possono fare a meno di scappare, perché non se ne vanno nei Paesi musulmani? Là almeno troverebbero la loro stessa cultura”. È un discorso sentito altre volte, che non va però ignorato o trattato con supponenza. Basterebbe ricordare che la divisione dell’Islam in molti casi rende impraticabile lo spostamento di popolazioni da un Paese musulmano a un altro Paese musulmano. Ma, soprattutto, basterebbe che ci rivolgessimo contro questa stessa domanda: se fossimo siriani, gente che sino a pochi mesi fa viveva la propria vita, poniamo, ad Aleppo, e ora ci trovassimo costretti a fuggire, dove cercheremmo di andare? Molto probabilmente in Europa, convinti di trovare una civiltà, o qualcosa che le assomigli, disposta ad accoglierci, per quanto male. Sempre meglio delle bombe, che espongono ogni giorno alla morte migliaia di civili.

Al di là di quello che faremmo se fossimo civili che rischiano la vita – si vedano, ad esempio, i servizi da Aleppo di Al-Jazeera, che in questi giorni mostrano l’efficienza dell’aviazione russa, in barba al debolissimo negoziato di pace avviato a Ginevra, ora sospeso – non possiamo ignorare le cifre degli spostamenti di popolazione nei Paesi limitrofi – Giordania, Libano, Turchia, Iraq.

Prendiamo la Giordania. Ruqban è un campo di profughi siriani al confine con la Siria, una sorta di terra di nessuno che accoglie circa 20.000 persone, la maggior parte bambini, donne e anziani. Un campo di fortuna, per nulla attrezzato, dove a causa del clima, della mancanza di igiene e delle malattie, della malnutrizione, le persone muoiono poco alla volta: solo negli ultimi quindici giorni la stima è di 70-100 decessi. Come riporta «Middle East Eye», a Ruqban – che è 120 km dal villaggio più vicino di Ruwaishid – c’è una sola possibilità di approvvigionamento d’acqua, le strade sono diventate impercorribili a causa delle pioggie e la zona di fatto è ora inaccessibile. L’epatite dilaga.

Accedere al campo da parte delle organizzazioni umanitarie è molto complicato e da più parti viene chiesto che l’accesso per gli aiuti umanitari avvenga senza restrizioni. Ma non è mai così. «Middle East Eye» porta l’esempio di uno dei più importanti campi profughi in Giordania, quello di Zaatari, cui si può accedere solo previa autorizzazione da parte dei servizi di sicurezza giordani. Il campo di Zaatari, dove le condizioni sono migliori rispetto a Ruqban, ospita, o sarebbe meglio dire detiene, 80.000 rifugiati siriani, cui si devono aggiungere i 350.000 di Amman, i 125.000 di Zarqa, i 200.000 di Irbid.

Ma, come detto, la Giordania è solo uno dei Paesi vicini che ospita chi fugge dalla Siria, per un totale che, secondo le stime del governo, è di oltre 1 milione e 200.000 persone, dei circa 5 milioni in tutto il Medioriente. L’azione militare dei russi a sostegno del regime di Bashar al-Assad sta accelerando l’afflusso di persone e la situazione è in molti casi ormai fuori controllo, come lo stesso Re Abdullah ha dichiarato tre giorni fa alla Bbc.


Il Libano dal canto suo ospita 1 milione e 900 mila rifugiati, su una popolazione che non arriva a 5 milioni. In Turchia se ne contano ormai quasi 2 milioni, quasi tutti siriani (fonte: Unhcr).

E proprio alla Turchia si affida l’Europa, che sta tentando – finanziando il regime di Erdogan, in prima battuta con tre miliardi di euro, quelli in merito ai quali si è acceso lo scontro tra il governo italiano e la Commissione Juncker – di arginare il più possibile gli arrivi sulla rotta balcanica. Una Turchia che mese dopo mese sembra allontanarsi sempre più dall’idea di regime democratico che dovrebbe essere ben caro alle diplomazie occidentali (sul punto, si veda l’articolo di Fabio Salomoni sulla vicenda di Can Dündar e Erdem Gül, del quotidiano «Cumhuriyet»).

È, nei fatti, una sconfitta drammatica, quella dell’Europa. Che non ha sinora saputo formulare strategie concrete per far fronte a un esodo di queste proporzioni. Da più parti, ad esempio, si sollecita la creazione di una polizia di frontiera “europea” cui affidare il compito del controllo degli accessi (così, ieri, Enrico Letta in una intervista pubblicata da «La Stampa»). Nel frattempo, Bruxelles prosegue con il suo passo (a gennaio, ad esempio, sono stati varati nuovi investimenti nelle regioni lungo le sue frontiere esterne). Un passo del tutto inadeguato per fronteggiare una situazione che poco alla volta sta andando fuori controllo.