Le notizie sugli investimenti di Cisco e Apple in Campania giungono a proposito, per confermare una convinzione e sfatare un luogo comune.

La convinzione è che il futuro del Mezzogiorno debba essere disegnato anche intorno a un grande, nuovo processo di industrializzazione. Dove per industria vanno intese sia l’Ilva sia la Apple: sia attività manifatturiere, fisiche, più tradizionali, sia attività creative e immateriali. Le accomuna essere “industria”: la possibilità di vendere i propri prodotti e servizi fuori dall’area di insediamento; un rilevante contenuto di innovazione di prodotto e di processo come fattore determinante della competitività; l’attivazione di altri posti di lavoro nelle attività di contorno. Nell’industria più avanzata un nuovo posto di lavoro ne genera, come effetto indotto, da quattro a cinque altri, come mostrano lavori di ricerca condotti negli Stati Uniti e in Europa. L’esempio della Germania Est è di tutta evidenza: reddito e occupazione lì crescono visibilmente come frutto, diretto e indiretto, di nuova capacità industriale.

Il luogo comune è che tutto questo non possa avvenire al Sud. Nessuno vuole nascondere i potenti fattori che ostacolano l’attività industriale nel Mezzogiorno, ancor più che nel resto del Paese. Immateriali, come una giustizia lentissima e farraginosa, che fa sì che la possibilità di veder riconosciuti i propri diritti sia molto, ma molto, più aleatoria che nel resto d’Europa; e che si possa essere oggetto di iniziative non poche volte estemporanee. Fattori materiali, come lo stato deplorevole delle infrastrutture e di servizi di trasporto (su cui Legambiente nel suo Rapporto Pendolaria ha diffuso analisi di grande interesse, su cui converrà tornare), che fanno sì che il costo per arrivare ai mercati – già geograficamente distanti – sia dal Sud particolarmente alto. È evidente che i costi logistici e di trasporto rappresentano un potente freno allo sviluppo internazionale dell’agroalimentare del Sud. Questi ostacoli purtroppo permangono inalterati. In alcuni casi si aggravano. Le politiche che dovrebbero ridurli sono sempre più impalpabili, ormai quasi inesistenti.

Ma ciononostante la filiera automotive del Sud genera 5 miliardi di export; 2,2 la filiera aereonautica; 4,4 quella alimentare e 2,2 quella della moda. Il segreto del loro successo non sta più, come tanto tempo fa, in costi del lavoro e della produzione particolarmente ridotti: basta attraversare l’Adriatico e andare un po’ verso Nord per trovare luoghi rispetto ai quali il Sud non potrà mai essere competitivo sui costi. Chi puntava solo su bassi costi, bassi prezzi è ormai da tempo fuori mercato. Certo, il fatto che il costo del lavoro sia mediamente del 20% più basso che al Nord (per la composizione per qualifiche e la minore contrattazione integrativa), e ancor più rispetto alla Germania, aiuta. Ma non spiega.

Le filiere industriali del Sud hanno successo perché incorporano sempre più “conoscenza”. Nei processi, grazie a qualità delle strutture produttive e impianti moderni; ma soprattutto grazie ad una forza lavoro scolarizzata, qualificata, flessibile. Gli operai di Melfi fanno scuola nel mondo sul world class manufacturing; i prodotti dei sarti e dei calzaturieri napoletani riempiono le vetrine dei negozi più costosi del mondo. E hanno successo perché costruiscono relazioni virtuose con i «saperi» che sono disponibili sul territorio, in primis con le università e con i centri di ricerca; ma anche con i vecchi saperi artigiani, agrari. Il boom del vino è il caso di scuola. Dove più e meglio che a Napoli le multinazionali americane possono trovare una forza lavoro giovane, istruita e creativa, ad un costo ragionevole e in un ambiente urbano che – pur con tutte le sue enormi criticità – è straordinariamente stimolante e ricco di culture profonde, da valorizzare?

Nonostante le grandissime difficoltà dei contesti meridionali, la partita dell’industria non è assolutamente persa. Tanti fattori non aiutano, ma quello più importante non manca. Manca, invece, da troppo tempo la convinzione che valorizzare l’enorme bacino di lavoro potenziale del Sud sia il tassello fondamentale per una politica di rilancio dell’Italia. E le politiche ne sono conseguenza. Invece di potenziarli, in quantità e qualità, sulle università e sui centri di ricerca del Sud piovono tagli drastici, spesso immotivati. La crescente emigrazione dei cervelli (studenti, laureati, ricercatori) viene vissuta come un dato di fatto e non come un fenomeno da contrastare con vigore; anche attraendo cervelli dal Sud del mondo. Da troppo tempo non vi è traccia di una politica industriale, basata sui fattori di competitività di oggi, e non di ieri, che miri a costruire nuova industria e nuovo sviluppo. Sembra facile retorica, ma è realtà dell’economia: i disoccupati del Sud sono la soluzione, non il problema, dell’Italia. Chissà che anche gli americani non aiutino le classi dirigenti di questo Paese a rendersene conto; e a darsi, finalmente, una mossa per valorizzarli.

[Questo articolo è uscito su «Il Mattino» il 22 gennaio]