Non se n’è parlato molto. Ma il 30 settembre scorso dieci regioni italiane hanno depositato in Cassazione sei proposte di referendum. La metà delle regioni italiane, dunque: Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Abruzzo, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise.Con l’eccezione dell’Emilia-Romagna, del Friuli Venezia-Giulia e della Sicilia, tutte quelle che hanno uno sbocco sul mare. Il motivo è semplice, poiché scopo dei referendum è opporsi alle conseguenze del cosiddetto «Sblocca Italia» (d.l. 133/2014, Capo IX: «Misure urgenti in materia di energia»), laddove il decreto governativo – cui si aggiunge l'articolo 35 del decreto Sviluppo che venne varato dal governo Monti – tratta la questione della ricerca di idrocarburi, delle trivellazioni in mare e delle relative concessioni. Visto il parere positivo espresso dalla Cassazione, ora la parola è alla Corte costituzionale, che dovrà esprimersi sui quesiti referendari. In caso di ammissibilità, il presidente della Repubblica dovrà decidere la data della consultazione, che dovrà tenersi entro il 15 giugno.

Si tratta di una questione assai rilevante da molti punti di vista. Politici, dal momento che molte delle regioni coinvolte sono guidate da una Giunta di centrosinistra (proprio pochi giorni fa è scoppiato un caso in Abruzzo, dove la Giunta regionale guidata da Luciano D’Alfonso sembra voler smentire quanto espresso dal suo Consiglio regionale in data 24 settembre 2015: cfr. L’Abruzzo (del Pd) rompe il fronte referendario antitrivelle, «il manifesto», 15.1.2016). Istituzionali, poiché il decreto mette in discussione i rapporti tra centro e periferia, togliendo alle Regioni le prerogative in merito alle modalità e ai tempi delle concessioni. Di merito, rispetto a una visione da molti considerata superata e dannosa che vede ancora negli idrocarburi la fonte energetica di riferimento anche per i decenni a venire, ignorando le belle parole e gli intenti declamati in accordo con gli altri Stati a Cop21, il recente vertice parigino di cui ci siamo occupati qui. Come ha dichiarato il capofila dei referendari, il presidente del Consiglio regionale della Basilicata Piero Lacorazza (Pd), l’intento è di «impedire le trivellazioni in mare in un raggio di 12 miglia dalla costa e ripristinare le funzioni delle Regioni e degli enti locali in materia» (la Basilicata dell'Eni di Enrico Mattei conta decine di impianti di trivellazione sul proprio territorio).

In attesa che la Corte si pronunci, le cose vanno avanti. A ridosso del Natale, il 22 dicembre, il ministero dello Sviluppo economico ha conferito il permesso alla filiale italiana dell’irlandese Petroceltic per procedere con le ispezioni nel mare di fronte alle Isole Tremiti, su una superficie di 373,70 kmq. Stando alle prime indiscrezioni, rivelate da «Repubblica», Petroceltic Italia pagherà allo Stato la cifra di euro 5,16 per kmq, per un totale di 1928,292 euro l'anno. Il giorno successivo l’emanazione del decreto, il 23 dicembre, il governo ha inserito un emendamento nella Legge di stabilità che prevede l’introduzione di reato ambientale anche per le trivellazioni, vietando quelle entro le 12 miglia dalla costa. La ragione sembra evidente: tentare di evitare in extremis i referendum.

Tutto questo ha portato a una situazione paradossale: da un lato (bypassando le Regioni) vengono concessi i permessi per indagini alla ricerca di eventuali giacimenti petroliferi al largo delle nostre coste, della cui particolarità e delicatezza lasciamo dire agli esperti. Dall’altro sono state vietate le trivellazioni. Ergo: cerchiamo il petrolio, ma se poi lo troviamo non possiamo estrarlo.

Al momento, una presa di posizione ufficiale da parte del governo manca, e il presidente della regione Puglia Michele Emiliano non ha tardato a segnalarlo «è incredibile che il governo non abbia pubblicamente spiegato la decisione di rilasciare le autorizzazioni al largo delle Tremiti».

Secondo le organizzazioni ambientaliste, appoggiate da diversi parlamentari, anche dello stesso Partito democratico (si vedano, ad esempio, le prese di posizione del presidente della Commissione Ambiente della Camera Ermete Realacci) sono in corso di autorizzazione permessi anche di fronte all’isola di Pantelleria, per un’estensione di 4.124 kmq e nel golfo di Taranto, per un’estensione di 4.025 kmq a favore della Schlumberger italiana. Nel complesso, «in Italia sono vigenti permessi di ricerca per idrocarburi per un totale di 36.462 kmq di cui sulla terraferma sono 90 per un totale di 27.662,97 Kmq e nel sottofondo marino sono 24 i permessi per 8.800 Kmq: si sta perforando un territorio equivalente a quello della Lombardia e Campania messe insieme» (greenreport.it).

Sarà interessante vedere come finirà. Al momento, la scelta sembra essere tra visioni coerenti con un futuro di sviluppo reale in accordo con le belle parole che si sottoscrivono nei tavoli internazionali e uno legato a una visione che, come ai tempi di Mattei, sembra volere affidare la modernizzazione dell’Italia alle lobby del petrolio.