L’Europa – il sogno di un’Europa unita politicamente e coesa idealmente – sembra dissolversi sotto le minacce esterne e le contraddizioni interne. Il successo del Front National antieuropeista, nazionalista e xenofobo al primo turno delle elezioni regionali francesi è solo l’ultimo tassello di un quadro desolante. Che senso ha oggi scrivere una storia d’Europa? E come farlo? È la domanda che si pone Andrea Zannini nel suo Storia minima d’Europa. Dal neolitico ad oggi.

Va detto che questa non è una storia dell’idea d’Europa, certamente non nel senso che a questa davano Federico Chabod, Anthony Pagden, Heikki Mikkeli e tanti altri autori, ma piuttosto, come lo stesso autore afferma, un viaggio attraverso «gli snodi, i processi e le trasformazioni principali che hanno condotto all’Europa di oggi». È un viaggio durante il quale il lettore è condotto dalla pianura renana dell’uomo di Neanderthal, fino alla steppa caspica dell’Ucraina di oggi con uno stile originale, sempre attento alle esigenze un pubblico ampio, che egli sollecita qua e là con un certo gusto dell’anacronismo terminologico. Un viaggio che termina con uno sguardo sul futuro, ossia un capitolo finale sulle sfide che l’Europa ha oggi davanti a sé e che dovrebbe essere in grado di accettare, pena la sua dissolvenza.

Non è neanche, quello di Zannini, un libro sulle radici storiche dell’Europa, nel senso che questo tema ha assunto nel dibattito politico e storiografico che ha accompagnato prima l’allargamento verso Est dell’Unione, poi i lavori per la scrittura della Costituzione europea, di cui i dibattiti sulle “radici cristiane” dell’Europa sono stati solo la punta dell’iceberg.

In parte, tale reticenza dipende dalla periodizzazione ampia adottata dall’autore. Una riflessione sulle radici, o sui caratteri originali come preferiva con un’espressione alla Bloch il compianto Paolo Viola nella sua Storia d’Europa (2004), infatti, è più agevole in un quadro cronologico più circoscritto, che è esso stesso frutto del riconoscimento della grande rottura che segna la fine del mondo antico-romano. Certo, la periodizzazione non è dirimente. Giuseppe Galasso, per esempio, nella sua Storia d’Europa aveva già usato la stessa periodizzazione lunga dalla preistoria al contemporaneo, insistendo sull’eredità di lunghissimo periodo nel definire un «modello civile e culturale europeo», dal cui riconoscimento dipenderebbe la comprensione – e la rivendicazione – di una identità europea. Era il 1996, dunque un contesto politico e culturale diverso. Ma questo tema spinoso è stato a lungo evacuato dal dibattito pubblico, e (ri)diventa oggi la bandiera di chi legge il mondo in chiave di scontro tra civiltà.

Zannini insiste assai meno sulla continuità, assai meno sulla nozione di civiltà, anche perché non mette mai l’accento sulla storia culturale. Preferisce considerare l’Europa «il luogo dove si è svolta un’affascinante, anche se spesso tragica esperienza umana». Un luogo dai confini labili, un continente anche geograficamente difficile da delimitare, sebbene l’autore richiami l’attenzione su alcune caratteristiche che hanno profondamente influenzato lo sviluppo dei gruppi umani che vi si sono insediati, in primo luogo il mare che circonda, unisce e collega. Nel libro, del resto, non ci si sofferma molto sulla questione dei confini, e il punto focale viene corretto seguendo gli eventi.

Non è che Zannini rifiuti di prendere posizione su alcuni dei dibattiti che hanno animato gli studi negli ultimi decenni. Lo fa in punta di penna su molti aspetti, per esempio sulla rottura tra antichità e medioevo e sull’impossibilità di considerare l’impero romano «un primo avviso dell’Europa unita», oppure sulla preminenza del Cristianesimo come elemento unificante dello spazio culturale europeo tra tarda antichità e Medioevo. O ancora sullo Stato moderno, a proposito del quale Zannini propone di vedere una particolarità europea non tanto nell’elaborazione di un’idea astratta di autorità e della sua separazione dall’autorità religiosa e l’affermazione di una burocrazia, quanto nella «massima concentrazione nel minor spazio possibile di entità statali autunome». E così sulla rivoluzione industriale, sui totalitarismi del Novecento e su molte altre questioni puntuali. Ovviamente, il taglio sintetico lascia poco spazio ai dibattiti storiografici, ma l’autore ha sempre cura di segnalarli al lettore e sottolineare la natura provvisoria del consenso storiografico.

Se si dovesse sintetizzare in una frase il merito maggiore di questo libro, si potrebbe dire forse che chiama le cose con il loro nome: quella che viene ancora spacciata come storia generale, specialmente nei manuali scolastici, viene qui chiamata con il suo nome, storia d’Europa, ed è un’operazione di salutare chiarezza epistemica e culturale che lo distingue sensibilmente dalla storiografia degli anni Novanta, assai più concentrata – mi si conceda la generalizzazione sbrigativa – sul tentativo di definire e, in fondo, delimitare l’Europa.

È chiaro che ciò dipende anche dal mutato contesto storiografico, e non solo ovviamente da quello geo-politico. Due, tre decenni fa, la sfida esplicita, inizialmente lanciata dagli studi post-coloniali, era quella di «provincializzare l’Europa», per paragrafare il titolo di una fortunata raccolta di saggi di Dipesh Chakrabarty Provincializing Europe. Postcolonial Thought and Historical Difference (2000). Oggi gli storici, assai più consapevoli degli scambi, intrecci, dei giochi di reciproche influenze e campi di forze a livello globale, guardano diversamente all’oggetto “Europa”. Importa relativamente poco che, per la verità, storia nazionale, storia europea e storia globale siano in realtà filoni che procedono su binari paralleli, si rivolgono a lettori diversi, hanno committenti diversi: la storia nazionale, del resto, proclamata morta più volte, resiste imperterrita nelle aule e nelle librerie.

Dovendo inserire una nota critica, è un peccato che Zannini non abbia adottato una visione programmaticamente più interconnessa della sua storia d’Europa, pur nel formato che ha scelto e negli stretti limiti di spazio che si è imposto. Non che non introduca delle comparazioni, in particolare con la Cina: la declinazione di un riflesso/confronto con l’Asia che, almeno dall’Illuminismo, è parte integrante del farsi Europa. Ma forse avrebbe potuto permettersi di portare in primo piano le interazioni, più che l’espansione o la comparazione, e farne un asse portante di un nuovo modo di raccontare la storia d’Europa oggi.

Si torna così alla domanda iniziale: perché scrivere una storia d’Europa oggi?

Negli anni Novanta, la fortuna editoriale del genere era evidentemente legata al processo politico in corso e all’idea che si dovesse alimentare la formazione di una comune coscienza europea di unità nella diversità. Secondo Zannini, si tratta di una finalità illusoria, e rincara la dose nelle conclusioni quando scrive che la ricerca del futuro nel passato è «un gioco di ombre cinesi» tipico della cultura occidentale. Tuttavia ciò non toglie che si scrive la storia d’Europa «per capire da dove siamo venuti» e che capirlo (cioè assegnando una funzione non identitaria, ma cognitiva alla storia) è pur sempre finalizzato all’esercizio della cittadinanza europea, a raccogliere le sfide che l’Europa si trova oggi ad affrontare, con le quali si conclude il suo libro e si apre una prospettiva, appunto, squisitamente politica.