La cittadinanza (ius sanguinis o ius soli?), nell’epoca storica delle grandi migrazioni è il tema all’ordine del giorno in quasi tutti i Paesi europei. Luigi Ceccarini interviene in questo dibattito (acceso e a tratti drammatico) proponendo un altro punto di vista, uno spostamento dell’oggetto probabilmente vincente: quello – come dice il titolo del suo bel libro – de La cittadinanza online (Il Mulino, 2015).

Lo sfondo (la parola è nel titolo del capitolo di apertura del libro ma con la “s” tra parentesi: “Questioni di (s)fondo”) è naturalmente la grande rivoluzione tecnologica che caratterizza l’età contemporanea. Una trasformazione epocale, come tante volte si è scritto e come conferma Ceccarini: l’avvento delle grandi reti immateriali, l’interconnessione diffusa senza più confini, la fascia immensa di dati (informazione e comunicazione) che invade e unifica, sia pure ancora con non trascurabili emarginazioni, il pianeta intero. La domanda che Ceccarini si pone non è diversa da quella che tutti rivolgiamo a noi stessi: qual è il rapporto tra questa formidabile rivoluzione, paragonabile nei suoi effetti diretti e indiretti a quella industriale, e l’identità collettiva e individuale di ciascuno di noi? Che ne sarà delle comunità nazionali e quindi del concetto stesso di cittadinanza? Quali diritti avremo, se saremo dispersi come atomi nella dimensione planetaria delle reti?

Alla domanda l’autore risponde sulla scorta specialmente della letteratura recente in lingua inglese (sociologica, politologica, economica), mettendo innanzitutto in ordine i dati del problema. Provo a riassumere, con qualche inevitabile tradimento della fonte.

Dalla società organizzata per classi e ceti sociali, identificabili persino nei loro opposti modelli di vita, articolata in precise gerarchie sociali e culturali, si è passati ad una società fluida, o liquida, o se si vuole frammentata, nella quale l’economia non è più concentrata ma invece diffusa nei territori, senza più confini nazionali o locali; ed i centri non sono più gerarchicamente sovrapposti alle rispettive periferie loro tributarie, ma con essi sempre più confusi e integrati sino a costituire un continuum; e il sapere si distribuisce universalmente, perdendo le sue connotazioni nazionali. In compenso, in un simile teatro, il cittadino è drammaticamente “solo” (cioè isolato dai suoi simili, privo di legami identitari duraturi). Al tempo stesso però questo cittadino “solo”, incapace di relazioni sociali fisiche, privo di punti di riferimento che lo uniscano ad una collettività, è costantemente iperconnesso con gli altri (potenzialmente con tutti gli altri) nella rete globale. Può cioè, con un solo clic, porsi in relazione con chiunque nel mondo. “Gli utenti mensilmente attivi su Facebook – scrive Ceccarini – […] sono 1 miliardo e 3.560 milioni, di cui quasi 300 milioni in Europa, oltre 400 nel continente asiatico, più di 200 in quello nordamericano”. Insomma, per citare ancora l’autore, “la politica passa sempre più attraverso il web”.

Sbiadiscono, in rapporto a ciò, le forme tradizionali della cittadinanza (l’identificazione in una patria, in una bandiera, in una subcultura di appartenenza, l’adesione a un complesso di valori nazionali o politici o anche semplicemente culturali) mentre crescono in compenso le cittadinanze “plurime” e variegate, composte cioè di frammenti identitari di varia provenienza, che agiscono e si rafforzano (o si sciolgono per poi ricomporsi) in relazione ad appartenenze differenti e talvolta persino non pienamente coerenti tra di loro (questo concetto, dell’identità simile a un puzzle in perpetuo mutamento, è di enorme rilevanza e induce a riflettere a fondo: ma Ceccarini non lo approfondisce).

La cittadinanza si trasferisce dal mondo dei rapporti fisici, dalla geografia, dal contesto ambientale e sociale, ad una dimensione nuova, che Ceccarini chiama “la cittadinanza online. Diventa “intermittente”, cangiante nel corso di una stessa vita individuale (si pensi ai migranti inseriti nelle società di accoglienza), provvisoria, talvolta persino occasionale. È comunque quasi sempre “single”, giacché su Facebook o Twitter o nelle reti di comunicazione su scala mondiale parliamo, agiamo, ci rappresentiamo da soli, isolati, mettendo a nudo tutta la nostra individualità spesso anche la più intima, senza vincoli solidali con altri. Il che ha per effetto l’estrema frammentazione della partecipazione online, la sua individualizzazione estrema, che rende problematica qualunque sintesi politica nei termini tradizionali.

Ne consegue la fine delle classi e del mondo degli interessi collettivi; il declino dei partiti, questi ingombranti ma preziosi canali di sintesi che, nati nell’Ottocento, hanno segnato con la loro presenza tutto il Novecento; l’imporsi ovunque di leadership individuali e di forme di mobilitazione non costanti ma intermittenti, quasi sempre in relazione a motivi specifici di mobilitazione; una partecipazione dal basso sì, ma anch’essa intermittente e legata a forme di auto-rappresentazione degli interessi, anche micro, senza aggregazione. La tumultuosa e disordinata pressione della domanda sociale che deriva da questo contesto dovrà essere interpretata dal leader. Questi, a sua volta, non necessariamente la deve ordinare e poi sintetizzare in programmi-filtro, dando forma compiuta alla sua fisiologica contraddittorietà interna, ma potrà invece di volta in volta scegliere, in base al calcolo del suo vantaggio politico immediato, di puntare su questo o quell’elemento preponderante (non importa se solo provvisoriamente). Il che comporta due effetti: che la leadership è per natura volatile, si esprime con parole che suscitano emozioni (“per narrazioni”, si usa dire) ma non con precisi programmi da rispettare nel tempo; e che viene meno il concetto chiave del Novecento, quello del blocco sociale, i cui interessi erano rappresentati sul teatro della politica da uno o più partiti e dai rispettivi gruppi dirigenti.

È la politica 2.0, conseguenza necessaria della cittadinanza online.

Ed è proprio su quest’ultimo concetto che si intrattiene in modo più originale il libro. La rete (o se volete la Rete con la maiuscola, data la sua rilevanza persino costituzionale) muta l’essenza stessa della cultura politica, non solo nelle forme della partecipazione (come si è detto sin qui), ma nel linguaggio, nei tempi, nelle modalità e persino nella natura della cittadinanza, che della partecipazione politica costituisce il necessario prerequisito. L’intero dibattito su ius soli o ius sanguinis ne è in gran parte superato. Ceccarini, decisamente, ci invita a voltar pagina.

Quel che Ceccarini propone è di ridefinire, sulla base di questa analisi, la “cittadinanza democratica”. Le nuove tecnologie non sono solo strumenti: implicano trasformazioni di sostanza, contenuti, filosofie diverse da quelle del passato. Per quanti rischi esse comportino (non sfuggono all’autore le derive plebiscitarie che vi si possono facilmente innescare), costituiscono la realtà del futuro (un futuro già in parte presente) e occorre dunque farle oggetto di riflessione e di risposta politica. Emerge così (capitolo terzo del libro) l’idea forte del “cittadino monitorante”, cioè di un uso dell’interconnessione globale a scopo di controllo dal basso del potere; vi si collega la categoria della “mobilitazione cognitiva”, e quella, ad essa conseguente, del voto non più di appartenenza ma di opinione. Il nuovo cittadino online dovrà dunque essere un “cittadino critico”. Scrive Ceccarini, in uno dei passaggi chiave del libro:

Lo sviluppo di forme di partecipazione politica, che vanno oltre quella di tipo elettorale, più che mettere in crisi trasforma la democrazia rappresentativa. Apporta elementi di cambiamento sul piano culturale e sulle prassi dei cittadini. Il “cittadino critico”, essendo appunto critico verso il funzionamento della democrazia e dei suoi attori principali, non ne disconosce però i principi, rispetto ai quali continua ad orientare il proprio sostegno.

Si sarà compreso che, rispetto alla coppia di concetti oppositivi posti molti anni fa da Umberto Eco in un celebre libro sugli esordi della televisione in Italia (“apocalittici” o “integrati”), Ceccarini propende per la seconda soluzione. Immagina cioè che l’impatto della nuova tecnologia possa risolversi in un fattore di maturazione critica della attuale democrazia, della quale vede e denunzia tutti i limiti strutturali ormai inguaribili. Come nell’agorà ateniese, anche nell’arena globale rappresentata dalla rete la cittadinanza può, a sua opinione, esercitarsi in forme mature: critiche, ispirate al controllo del potere, partecipate, razionali. Consolante conclusione, che fa giustizia dei fantasmi tante volte evocati in questi anni circa prossime società totalitarie dominate da più o meno autoritari grandi fratelli della rete.

Resta un punto sospeso, tuttavia: e consiste nella incapacità, almeno all’attuale stato dei fatti, di ordinare e razionalizzare il flusso informativo della comunicazione globale, traendone elementi di sintesi. La politica, nel passato anche più remoto, questo in fondo è sempre stata: il filtro delle idee, la loro rappresentazione potabile in vista della trasformazione in atto. Predomina ancora nella rete (al di là di molti primi confortanti segnali in senso contrario, ma appunto per ora solo segnali) l’estrema frammentazione dei dati, la loro strutturale incapacità di organizzarsi in “discorsi”. Sicché questo utile, interessante libro di Ceccarini lascia alla fine il lettore, pur consenziente con la sua analisi, dubbioso sull’ottimismo che ne caratterizza le conclusioni: e se il cittadino online fosse alla fine sommerso, schiacciato dalla mole dei dati? Se fosse incapace di esercitare razionalmente il suo diritto alla cittadinanza? Il tema è suggestivo, e rimanda all’urgenza di immaginare, nell’età delle reti, un nuovo ruolo intellettuale di interpretazione e razionalizzazione, di proposta e di articolazione di contenuti. Dal caos primordiale alla sintesi online, insomma.