La superficialità con cui certi temi vengono trattati e certe analogie compiute è sconcertante. Durante l'estate, sui media e in Rete, abbiamo assistito a diversi episodi che si prestano ad alcune considerazioni sull'uso disinvolto della memoria.

Lo scandalo delle «docce». L'eccezionale ondata di caldo agostano ha fatto sì che la direzione del Museo di Auschwitz-Birkenau mettesse a disposizione dei visitatori un sistema di raffreddamento tramite nebulizzazione: la somiglianza con delle «docce», condannata in particolare da alcuni visitatori israeliani, ha provocato un'ondata di sdegno, velocemente condiviso sui social.

I numeri sulle braccia dei migranti in fuga. All'inizio di settembre le autorità ceche preposte alla gestione dell'ondata di migranti in fuga dalla Siria hanno identificato le persone in transito verso la Germania scrivendo con un pennarello sui loro avambracci un numero indicante il treno e il vagone. La notizia è stata diffusa dal sito ceco Britske listy e poi ripresa da diverse testate: di fronte alla condanna unanime, la Repubblica ceca ha comunicato di aver interrotto questa pratica.

Un campo profughi a Buchenwald. Infine, pochi giorni fa, diverse testate internazionali hanno riportato una notizia circolata (e ampiamente commentata) in Germania già a gennaio: la scelta della municipalità di Schwerte, piccola cittadina nei pressi di Dortmund, di ospitare 21 rifugiati nell'area di un sottocampo del  Konzentrationslager Buchenwald. Tardivamente, oltre il confine tedesco, si sono sollevati indignazione e sconcerto per questa scelta di utilizzare un luogo «gravato dalla storia». Ma, a poche ore di distanza, la smentita: quegli edifici non sono le baracche del KZ-Außenstelle Schwerte Ost e comunque in quell'area non sorgevano gli alloggi degli Zwangsarbeiter, i prigionieri coatti, ma delle guardie del sottocampo, che in ogni caso si trova a quasi 400 km da Buchenwald. Dettagli necessari per precisare che il campo di Buchenwald – anche se dovremmo dire il suo memoriale – non sta ospitando migranti.

Ma la storia ci ha insegnato qualcosa? Occorrebbe tuttavia non dimenticare che già nell'immediato dopoguerra alcuni campi sono stati utilizzati per ospitare profughi, orfani, displaced persons. Pensiamo ad esempio, in Italia, al caso di Fossoli, campo di transito gestito dai nazisti e, dopo il 1945, prima sede di Nomadelfia, dove don Zeno Saltini accolse soprattutto ragazzi senza famiglia, e successivamente, per vent'anni, villaggio per i profughi istriano-dalmati. Nel caso di Buchenwald, se il campo principale è stato trasformato in museo negli anni Cinquanta dalla DDR (dopo averlo usato come campo per nazisti e nemici dello stalinismo), l'enorme rete di sottocampi ad esso collegati è stata solo in parte mappata, divisa com'era tra Germania Est e Germania Ovest (e Schwerte si trovava a Ovest). In certi casi gli edifici sono stati demoliti, in altri riutilizzati per le funzioni più diverse: ospitare dei rifugiati richiedenti asilo, tra le tante possibili rifunzionalizzazioni immemori del passato, non sembra certo la peggiore.

Quello che colpisce rispetto a queste notizie è come l'indignazione – mediatica, diffusa sui social media e talvolta ripresa da esponenti politici – sia scattata di fronte ad analogie superficiali: tubi che spruzzano acqua per alleviare la calura durante la visita dell'area memoriale, quando le «docce» di Auschwitz erano stanzone con bocche eroganti gas poste sul soffitto o sulle pareti; numeri scritti (e non tatuati) per cercare di tenere unite le famiglie in una situazione di emergenza ed evitare lo smarrimento dei bambini, non per separare, spersonalizzare, privare di dignità umana; baracche scelte per ospitare rifugiati, ma situate in un luogo collegato a un famigerato campo di concentramento. Se le analogie sussistono per somiglianza o prossimità (visuale, gestuale, locale), la reale motivazione di quelle scelte sottende tutt'altro, se non proprio il contrario di quello per cui ci si indigna. Si tratta di analogie «sensazionali»: basate su percezioni superficiali e costruite per suscitare impressione.

In realtà, bisognerebbe andare più a fondo e chiedersi dove stanno le reali analogie tra quanto accaduto allora e quanto sta accadendo oggi. La chiusura delle frontiere e i relativi respingimenti – quello che avviene ora sotto ai nostri occhi – portò molti profughi di allora a tentativi disperati di attraversamento o a reazioni drammatiche. Uno dei più famosi profughi respinti è Walter Benjamin che, in fuga dall'occupazione nazista della Francia, il 25 settembre del 1940 giunse al confine spagnolo, dove, però, si vide negare il visto di transito (da lì avrebbe voluto imbarcarsi per gli Stati Uniti). Temendo di essere rimandato indietro – e quindi verso la deportazione certa – dalla polizia di frontiera, quella notte, a Portbou, si suicidò con una dose di morfina. Il giorno dopo, i suoi compagni di fuga furono lasciati passare.

A quasi settantacinque anni dalla sua morte, avvenuta nella fase iniziale del processo che portò allo sterminio, a fronte dei tanti moniti affinché «non accada mai più» sembra che, davanti al farsi continuo della storia, non abbiamo ancora imparato a vigilare e reagire. Perché il passato non si ripete mai, è vero, ma possono sussistere profonde analogie con esso che vanno riconosciute. Tra coloro che lo hanno fatto ci sono senz'altro i tanti che, in queste settimane, stanno aiutando chi fugge da una guerra.