Vent’anni fa, a Dayton, i negoziatori americani avevano due obiettivi: mettere fine alla guerra in Bosnia Erzegovina e porre le basi di uno Stato funzionale. Il primo obiettivo è riuscito, il secondo no. Il fallimento della Bosnia di Dayton, in quanto progetto politico, è alla base della costruzione dei muri invisibili che oggi dividono il Paese.

Con le sue due entità, un distretto, dieci cantoni, tre presidenti e più di un centinaio di ministri, la Bosnia è uno Stato non-funzionale. La divisione di ogni livello dell’amministrazione su linee etniche non consente il normale funzionamento della macchina statale. Inoltre, non garantisce il rispetto per i diritti dei singoli, come chiarito nel 2009 dalla Corte di Strasburgo con la sentenza Sejdić-Finci.

L’affermazione di un sistema consociativo dominato da serbi, croati e bosgnacchi, tuttavia, non è l’unica conseguenza della guerra 1992-1995. A distanza di due decenni, è ormai evidente che il progetto della pulizia etnica, perseguito dalle forze nazionaliste negli anni Novanta, ha avuto successo. La Bosnia di oggi è la somma di un insieme di comunità locali, città e regioni etnicamente divise. Il processo di ritorno, disciplinato dall’Annesso 7 degli Accordi di Dayton, che avrebbe dovuto consentire a profughi e sfollati di rientrare nelle proprie case, non ha modificato i risultati della guerra. I rifugiati hanno sì riavuto le proprie case ma, soprattutto dove si sono trovati a essere minoranza dopo la guerra, hanno deciso di rivenderle, oppure di tenerle come seconde case, senza abitarle.

Questo generale quadro di divisione, delle istituzioni e del territorio, si è infine proiettato sull’intera società. Ogni aspetto della vita quotidiana è interpretato secondo chiavi di lettura divergenti. Persino le vittorie del mezzofondista Amel Tuka, o della nazionale di calcio di Edin Džeko, sono celebrate solo da una parte della popolazione, nell’indifferenza di quanti non si riconoscono nei colori indossati dagli atleti. I muri più difficili da superare, però, riguardano la memoria del passato recente, cioè della guerra, che viene ricordata secondo tre versioni parallele e non comunicanti.

La struttura del sistema educativo è l’elemento che più di ogni altro contribuisce a questo lento processo di disgregazione sociale. In Bosnia esistono oggi tre curriculum di studio differenti, articolati in base alle cosiddette «materie nazionali». Le nuove generazioni non crescono in un ambiente inclusivo, con una base di valori e riferimenti comuni, ma in un sistema compartimentato. Non esiste un ministero dell’Istruzione su base statale. Gli scambi sono ridotti ai minimi termini. Gli studenti di Sarajevo, a maggioranza bosniaco musulmana, non vanno a Banja Luka, a maggioranza serbo bosniaca, e viceversa. Le nuove generazioni sono più divise, e vicendevolmente estranee, di quelle che hanno partecipato alla guerra.

Le speranze per una rinascita del Paese provengono dalla società civile, da forme di organizzazione spontanea tra cittadini, estranee ai partiti e a logiche etniche, che cercano di affermare valori comuni. Martedì 15 settembre, dopo un blocco durato tre anni, ha riaperto il Museo Nazionale della Bosnia Erzegovina. Insieme ad altre sei istituzioni culturali di livello statale, era stato chiuso per mancanza di fondi. I finanziamenti alla cultura non provengono infatti dallo Stato ma dalle due entità in cui il Paese è diviso, la Republika Srpska e la Federacija BiH, che non hanno interesse a sostenere progetti che ne trascendano i confini. Il Museo Nazionale, grande edificio ottocentesco nel quartiere di Marijin Dvor, a Sarajevo, con al centro un meraviglioso orto botanico, si era trovato in un vuoto legislativo, insieme ad altre sei gallerie e biblioteche. Circa 40 impiegati, senza salario, erano però rimasti sul posto di lavoro, a custodire la collezione che racconta la storia della Bosnia a partire dai primi insediamenti umani, e che comprende l’inestimabile Haggadah portata dai sefarditi in fuga dalla Spagna. Col tempo, la gente si è riunita attorno agli impiegati, dando vita a una campagna di solidarietà («Io sono il Museo»), coordinata dall’associazione Akcija.

Sulla spinta della mobilitazione, alcune istituzioni hanno infine trovato i fondi per riaprire un Museo che, attraverso la catalogazione di 4 milioni di oggetti, mostra che questo Paese ha una storia comune. Centinaia di persone hanno partecipato orgogliose alla cerimonia di riapertura mostrando che, a volte, i muri si possono anche scavalcare.

 

[Questo articolo è frutto della collaborazione tra Osservatorio Balcani e Caucaso e rivistailmulino.it]