Nelle sue varie sezioni, la Mostra del cinema di Venezia, giunta quest’anno alla 72.ma edizione, spiccano film anti-narrativi, inchieste o reportage, docu-fiction, materiali ibridi che innestano elementi di finzione in trame storiche, o viceversa. Non si tratta della mera rinascita del genere documentario consacrata due anni fa in Laguna dal Leone d’oro andato a Sacro GRA di Gianfranco Rosi, bensì di un movimento più complesso e tormentato, tuttavia spesso felice negli esiti, che riflette sulla macchina-cinema mentre la decostruisce e la ricombina. È una trasformazione/reazione del cinema indipendente minacciato dai blockbuster con la loro potenza di fuoco sul mercato globale. Un mercato che la digitalizzazione delle sale non ha affatto reso più “democratico”, esaltando, anzi, le logiche commerciali della grande distribuzione tout court.

Se raccontare una bella storia linda e compiuta, magari impegnata, non significa riuscire poi a proporla al pubblico (con le dovute eccezioni, vedi il successo al botteghino di Il giovane favoloso di Martone), allora tanto vale sperimentare, sporcarsi le mani nella cronaca visionaria del presente e del recente passato, o mescolare verità e finzione. Per giunta questa dialettica rigenera i festival che vogliano approfondirne i termini: è una frontiera oltre la frusta mondanità divistica o il marketing delle case di produzione sul tappeto rosso e dintorni.

Dice bene Alexandr Sokurov, il maestro siberiano che a Venezia vinse col suo Faust nel 2011: “È finito il tempo delle risposte semplici. La crisi ne impone di più complesse. Solo i politici credono ancora che si possano offrire risposte semplici ai problemi di oggi, perché sono impreparati”. Con il suo stile difficile e fascinoso, stavolta Sokurov alla Mostra ha proposto in concorso Francofonia, che riflette su questioni essenziali, l’identità europea e la tutela del patrimonio artistico, negli stessi mesi della crisi greca, dell’ondata dei profughi e delle distruzioni archeologiche di Palmira per mano dell’Isis. Il film ricostruisce il rapporto tra due storici dell’arte, il conservatore del Louvre e un gerarca nazista, che riuscirono a salvare i tesori del museo nella Parigi occupata da Hitler. Pur schierati in campi avversi, il francese e il tedesco collaborano nel nome dei meravigliosi ritratti senza i quali l’Europa sarebbe altra da sé o forse non avrebbe avuto un “volto”; entrambi imbarcati sull’”arca” di Leonardo da Vinci e di Marianna, il Louvre stesso (Sokurov nel 2002 ha dedicato Arca russa all’Hermitage di San Pietroburgo).

Intanto in Francofonia l’autore comunica via radio con un amico a bordo di una nave che, oggi, trasporta una preziosa collezione d’arte ed è destinata al naufragio durante una tempesta. I piani temporali della seconda guerra mondiale e del presente restano autonomi, eppure sono congrui grazie alla sovversione creativa delle regole del racconto. Accade per certi versi anche nel nuovo film di Marco Bellocchio, Sangue del mio sangue, dove s’intrecciano la vicenda di una giovane monaca ritenuta una strega e perciò murata viva nel Seicento, e l’ironica, svagata, quasi felliniana resistenza alla modernità di un conte-vampiro dei giorni nostri, a Bobbio, la piccola città emiliana di cui è originario il regista.

A proposito di antropologie urbane, sempre alla Mostra di Venezia, ecco i volti sgomenti e fieri dei cittadini di Leningrado/San Pietroburgo durante le giornate dell’agosto del 1991 in cui il presidente Gorbaciov era in mano ai golpisti contrari alle riforme, che però si risolsero in un preludio della fine dell’Urss. A mostrare le immagini di repertorio della folla tanto preoccupata quanto composta è il documentarista Sergei Loznitsa in Sobytie (“L’evento”), la cui compattezza stilistica nel bianco e nero d’epoca fa pensare a una paradossale regia estetica retroattiva.

Dalla Russia a New York, dove l’indomito Frederick Wiseman, 85 anni e un Leone d’oro alla carriera nel 2014, scandaglia e rinvigorisce la multietnicità di un quartiere tra i più vivaci della metropoli statunitense, lungo le tre ore e passa del documentario In Jackson Heights. È la stessa New York di Heart of a Dog (“Cuore di cane”), in cui la musicista Laurie Anderson elabora la perdita del compagno di vita Lou Reed fra meditazioni visive, spezzoni in Super8, grafiche fantasiose, memorie infantili e stralci in animazione. La sua è una riflessione sul nomadismo fra le arti come unica possibilità per (non) raccontare le storie.

“Risposte difficili” allo stallo delle narrazioni tradizionali vengono parimenti da Rabin, the last day dell’israeliano Amos Gitai e da Spotlight dell’americano Thomas McCarthy. Nel primo film si ricostruisce l’inchiesta sulle falle nella sicurezza che portarono all’assassinio del premier Yitzhak Rabin il 4 novembre 1995 da parte di un ebreo osservante: un trauma che troncò le speranze di una pace duratura con i palestinesi. Nell’ottica a ciglio asciutto di Gitai l’omicidio è il frutto avvelenato della campagna di odio della destra israeliana e dei rabbini più tradizionalisti contro Rabin, considerato un traditore di Israele e del suo stesso nome… Altra indagine e altra storia vera in Spotlight: è la tenace inchiesta giornalistica del “Boston Globe” che nel 2001-2002 portò alla luce gli abusi sui minori nella Chiesa cattolica.

E se Franco Maresco contrappunta le immagini dei morti ammazzati dalla mafia nella Palermo anni Ottanta con un dolcissimo inno alla luna in Gli uomini di questa città io non li conosco. Vita e teatro di Franco Scaldati, il ventisettenne americano Brady Corbet sorprende con il suo film The Childhood of a leader. “L’infanzia di un leader” mostra la rigida educazione ricevuta dal figlioletto di un diplomatico Usa partecipe della delegazione del presidente Wilson a Parigi per il Trattato di Versailles dopo la prima guerra mondiale (di cui vediamo le immagini documentarie). Nell’Europa dei fantasmi autoritari che già si scorgono prima dell’avvento del nazismo, un bambino maltrattato può diventare un mostro dittatoriale: persino l’orrore è cinema-verità.