Renzi è riuscito sinora a trasmettere l’immagine di un governo innovativo e riformatore: sul merito e la qualità delle innovazioni e delle riforme c’è dissenso, ovviamente, ma ad esse anche i critici più ostili non negano una certa incisività e coerenza d’insieme. È riuscito anche a trasmettere l’immagine di un governo che intende rispettare gli impegni assunti con i trattati europei, anche se si adopera per modificarne consensualmente gli aspetti che maggiormente contrastano con gli interessi del nostro Paese. Al di fuori delle forze politiche che sostengono il governo nessuno dei partiti di opposizione oggi trasmette un’immagine simile. Salvo che per le singole iniziative sulle quali si concentra il loro messaggio elettorale e per l’accesa opposizione all’Unione monetaria europea, è difficile capire che cosa il Movimento 5 Stelle o la Lega farebbero, se fossero al posto di Renzi, sull’intera gamma di decisioni che un governo deve affrontare, ciò che è tipico di movimenti populisti o single issue.

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Dunque riformismo contro populismo e conservazione, “progresso senza avventure” contro eversione anti-sistema, capacità di governo contro protesta senza sbocchi realistici: è questa la scelta che gli italiani avrebbero di fronte? Questa, quantomeno, sembra essere l’immagine della scelta elettorale che Renzi intende dare e a cui affida il suo successo […]

 
Oggi dobbiamo riconoscere che, se si eccettuano alcuni “pontieri”, nel Pd esistono due partiti, che sostengono due linee politiche radicalmente diverse, ed è comprensibile che nel corso dell’estate si sia parlato di scissione con sempre maggiore insistenza. Fenomeni di divisione interna come quelli che le cronache hanno registrato nel corso di quest’anno di solito preludono ad una scissione: significano che i dissensi hanno spezzato o il senso di “parte” - di comunità politica distinta dalle altre - o le ragioni di convenienza, o entrambi i legami che tengono insieme un partito
 
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L’intensità dell’opposizione interna conferma la natura rivoluzionaria dello strappo operato da Renzi sia nella concezione di democrazia, sia in quella di partito. Per la democrazia il passaggio da un modello consociativo a un modello competitivo. Per il partito democratico, una vera e propria rifondazione. Ovvero, rubando l’espressione a una vecchia e grande storia, la fondazione di un nuovo… “Partito Nuovo”, ancor più difficile di quella operata da Togliatti, che aveva alle sue spalle l’appoggio decisivo dell’Unione Sovietica. Se vuole restare in una democrazia parlamentare e in un regime di partiti

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Renzi deve trasportare una organizzazione caratterizzata da un forte pluralismo interno, e da sempre assestata in un equilibrio oligarchico e auto-referenziale, a combattere in terreno aperto, a rivolgersi a tutti gli elettori per ottenerne un consenso maggioritario. Dunque a far leva sulla proposta di governo per l’Italia, sulle riforme, come asse identitario del partito “nuovo”.

Di un partito di sinistra adatto al Paese, alle condizioni reali in cui si trova, al momento storico che sta vivendo. Il Pd pre-renziano era diverso: l’identità, il senso comune dei suoi leader e dei militanti, era un compromesso tra le vecchie ideologie dei suoi due ceppi costituenti, postcomunisti e cattolici di sinistra: era questo che andava preservato e rappresentato nel governo. In un governo di coalizione, ovviamente. La “vocazione maggioritaria” era stata un’ubbia passeggera di Veltroni (questo il giudizio dei “realisti” e di D’Alema in particolare) e se il governo - per definizione debole e incoerente - non fosse stato in grado di imporre la spinta necessaria a far uscire il Paese dalla sua traiettoria di declino, si sarebbe trattato comunque del miglior vino che la botte italiana era in grado di dare e occorreva rassegnarsi: con questa filosofia, e nel contesto elettorale del Porcellum, si è arrivati all’armata Brancaleone che prevalse per un soffio nelle elezioni del 2006 per cadere miseramente meno di due anni dopo.

Renzi parte da una critica radicale del bipolarismo tra coalizioni che l’ha preceduto, ed in particolare delle coalizioni che hanno formato il polo di centrosinistra. E muove dall’aspirazione a guidare un governo riformatore efficace e coerente, in grado di invertire la decadenza del nostro Paese, anche a costo di infrangere alcuni tabù che la sinistra si porta appresso dai tempi d’oro dell’era socialdemocratica. Ha colto al volo l’occasione tattica che si presentava, e ha guadagnato una solida maggioranza nella segreteria nazionale: dobbiamo criticarlo per aver agito come la volpe e il leone di machiavelliana memoria? No, ma dobbiamo riconoscere che la velocità e la spregiudicatezza necessarie per sfruttare un’occasione irripetibile - nonché la scarsa preparazione di una parte del nuovo ceto di governo - non hanno consentito un disegno di riforme ottimali: alcune, quelle che avevano alle spalle anni di discussione e di studio da parte di competenti policy communities e di valenti studiosi (le riforme elettorali, costituzionali e del lavoro) sono significativi passi in avanti nella modernizzazione del Paese e possono essere difese contro le critiche di merito oneste ad esse rivolte. Di altre si capiscono le buone intenzioni e si possono apprezzare gli indirizzi di massima, ma è troppo presto per dire se matureranno gli effetti sperati.

E soprattutto dobbiamo riconoscere che Renzi non è riuscito a convincere pienamente il partito della legittimità - per non dire, come direbbe Alfredo Reichlin, della “necessità storica”- del partito nuovo in cui intende trasformare il Pd.

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Le riforme

Se il partito come organizzazione non è una risorsa ma un problema, può essere l’azione di governo una risorsa compensatrice? Lo sarebbe se gli equilibri parlamentari fossero solidi e se le riforme potessero trovare un sollecito riscontro in una maggiore crescita economica e, più ingenerale, in una maggiore soddisfazione dei cittadini. Nessuna di queste due condizioni si verificherà. Il sostegno parlamentare, minato dalla defezione di una parte dello stesso Partito Democratico, sarà sempre precario al Senato, costringendo il governo a notevoli acrobazie, e forse ad alterazioni significative dell’originario impianto riformistico, allo scopo di procurarsi i voti necessari. E le riforme assai difficilmente daranno luogo a effetti benefici percepiti dai cittadini in tempi brevi, nei tempi della legislatura: la crescita economica e il riassorbimento della disoccupazione saranno sempre stentati, se pur ci saranno; il miglioramento della qualità dell’amministrazione pubblica inevitabilmente lento; l’immigrazione sempre massiccia e causa di disagi e tensioni; l’Europa sempre più teatro di scontri nazionali che centro di impulso sovranazionale alla crescita. Tutte circostanze che si prestano facilmente alla critica delle opposizioni.

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Come reagire a questo stato d’assedio? Come impedire che questo rovesci l’iniziale fiducia che l’opinione pubblica aveva concesso al governo? Come opporsi al logoramento del consenso cui sono soggetti i governi in carica in situazioni obiettive difficili? Credo sia questo il problema politico che Renzi ha di fronte nel prossimo anno, almeno sino all’approvazione della riforma del Senato. E credo sia il primo a sapere che, se compromette l’immagine di riformatore coraggioso che sinora è riuscito a dare, se assume una posizione difensiva e compromissoria, se si dimostra esitante e timido con i suoi avversari interni ed esterni, perde la risorsa principale che sinora gli ha garantito il successo.

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Lasciando da parte molti altri temi e le occasioni di scontro minori e occasionali, mi limito in via di esempio ai tre grandi temi dell’Europa, della politica economica e dell’immigrazione.

Di per sé l’Europa - i trattati dell’Eurozona che vincolano la libertà di politica economica dei Paesi membri - non è un oggetto primario di preoccupazione per la gran massa degli elettori meno colti e politicizzati. Come per le riforme elettorali e costituzionali, l’Europa, apparentemente, “non si mangia”, non tocca interessi e pregiudizi dei comuni cittadini come avviene per l’occupazione, le tasse o l’immigrazione. Essa entra nei cahiers de doléance degli elettori attraverso l’azione di agenzie intermedie, i partiti e i media, che connettono il mal funzionamento dell’Eurozona alle preoccupazioni primarie di cui dicevo: quanti degli elettori di Grillo e di Salvini hanno un’idea minimamente fondata di come l’Eurozona funzioni e di quali siano le conseguenze di un suo abbandono o collasso? Q

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Dal punto di vista di un governo che ha preso una netta posizione filoeuropea non si tratta dunque di contrastare una valutazione dell’elettore basata su esperienze personali, ma di opporsi ad una propaganda che trae conclusioni sbagliate da un’analisi critica che lo stesso governo in parte condivide, quando sostiene in sede europea la necessità di serie modifiche ai trattati istitutivi della moneta unica. Non dovrebbe essere difficile, per il governo, convincere l’opinione pubblica della ragionevolezza della propria posizione: è vero che, per come l’Unione monetaria ora funziona, essa produce influenze recessive nei Paese più indebitati e/o economicamente e istituzionalmente più deboli. Ma è altrettanto vero che azioni unilaterali di singoli Paesi miranti a sganciarsi dal vincolo della moneta unica avrebbero effetti ancor peggiori

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A differenza dei complicati ragionamenti sull’Unione monetaria, il ristagno nella crescita e nell’occupazione, e lo straordinario afflusso di migranti da Paesi poverissimi o afflitti da guerre - non é facile distinguere i due tipi di immigrazione - sono circostanze negative che una parte non piccola dei nostri cittadini sente sulla propria pelle, in specie i più poveri e meno dotati di risorse culturali per reagire in modo consapevole al contesto d’insieme. Sono circostanze destinate a restare con noi nel lungo periodo: al momento è difficile immaginare una situazione economica internazionale così espansiva da alleviare le tendenze al ristagno di quella italiana – mentre sto scrivendo ci sono segni preoccupanti in direzione contraria- ed ancor più difficile è immaginare che la pressione dei disperati sulle nostre frontiere si allenti. A un governo responsabile, e che voglia mantenere un profilo riformatore serio, non resta che ribadire l’indirizzo che ha sinora mantenuto. Sia per la politica economica, sia per l’immigrazione, un disegno comune con le voci più progressive dell’Unione europea: le proposte in tema di politica comune sull’immigrazione recentemente avanzate da due importanti socialdemocratici e uomini di governo tedeschi,

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Concludendo, un’avvertenza

Non vorrei aver dato l’idea che condivido tutte le iniziative di Renzi volte ad acquisire consenso elettorale: il rischio che siano altrettanto populistiche o insostenibili di quelle dei suoi avversari esiste. Per esempio, dai miei vecchi studi di economia e scienza delle finanze riporto la convinzione che un’imposta sulla casa (anche la prima) sia uno dei modi meno distorsivi per raccattare denaro dai contribuenti e non è un caso che tale imposta sia presente negli ordinamenti fiscali di gran parte dei Paesi civili. Oltretutto un buon catasto – a che punto è la riforma? - potrebbe anche consentire una certa progressività, esentando del tutto le abitazioni più modeste. Il mio punto di fondo è un altro. Poiché condivido l’impianto riformistico del governo – per il bene del Paese e di un partito progressista - credo che Renzi non dovrebbe smentire l’immagine di riformatore coraggioso che sinora è riuscito a dare.

Domanda. E se la prosecuzione della legislatura richiedesse l’eliminazione o il rallentamento delle riforme cardine del programma? In modo molto renziano Renzi potrebbe rispondere che non gli ha ordinato il dottore di proseguire la legislatura a tutti i costi, specie se ci sono motivi per sperare che un governo riformatore possa uscire vittorioso da nuove elezioni, …anche con un Senato non riformato.

 

[Questo è un estratto dell’articolo di M. Salvati, Renzi, stick to your guns, pubblicato su «il Mulino», n. 5/2015]