Il bottino di Palmira. La conquista della città di Tadmur in Siria, meglio conosciuta nel mondo come Palmira per il suo incredibile sito archeologico protetto dall’Unesco, rappresenta un altro passaggio importante nella fase attuale della Guerra di Siria. È la prima volta che l’organizzazione del sedicente Stato islamico (Is) combattee toglie all’esercito siriano un centro abitato di medie dimensioni. Prima è sempre intervenuto su territori già conquistati dai ribelli, approfittando della debolezza istituzionale, politica e militare di questi ultimi. La conquista di Palmira sembra essere motivata da ragioni anzitutto strategiche ed economiche. Situata nel centro del Paese, Palmira unisce la valle dell’Eufrate siriano e iracheno, sotto controllo dell’Is, con l’asse Damasco-Aleppo, la valle dell’Oronte e la costa del Mediterraneo, controllate da Damasco e da altri ribelli. In questo modo, lo Stato islamico può garantirsi il controllo di tutto l’est della Siria: prepararsi alla conquista delle ultime basi militari e dei pozzi di petrolio ancora in mano a Damasco, e unirsi ai suoi avamposti nel deserto che confina con Iraq e Giordania.  Da lì l’Arabia Saudita è vicina. Allo stesso modo, può minacciare a ovest il “corridoio” Damasco-Homs-Hama-Aleppo caro al regime, e rivaleggiare con le altre formazioni ribelli su chi potrà controllare l’asse portante della Siria. Ma, forse, oggi il valore strategico di Palmira per l’organizzazione dello Stato islamico è rappresentato dal suo tesoro archeologico. Sempre più le casse dell’autoproclamato califfo al Baghdadi sono finanziate dal contrabbando, sia di petrolio sia di reperti archeologici. Nazioni unite, Unesco e associazioni che monitorano il mercato illegale, stimano in miliardi di dollari statunitensi i proventi di questi traffici. Ricordiamo che il traffico illegale d’arte è il terzo mercato nero al mondo per fatturato dopo droga e armi. Come successo in Iraq, al messaggio iconoclasta e simbolico della distruzione di opere d’arte segue nei fatti la loro rivendita all’estero, nei mercati nord-americani, europei e del Golfo arabo. “Business is business”, anzitutto per gli uomini del califfo. Nonostante parte dei manufatti di Palmira siano stati portati in altri luoghi “sicuri” dalle autorità di Damasco, quanto rimane ha un valore finanziario inestimabile. Sia dal punto di vista artistico sia perché reale patrimonio dell’intera umanità. Si conferma, dunque, come il sedicente Stato islamico agisca secondo le pratiche di un’organizzazione che nei fatti unisce elementi tipici delle formazioni ribelli armate in contesti di guerra civile, elementi organizzativi e finanziari delle mafie o dei cartelli criminali, il tutto ammantato da una cornice ideologica tanto pretenziosa quanto insipiente dal punto di vista dottrinale. L’avanzata dell’Is su Palmira ha valore anche in quanto parte dell’offensiva dei ribelli in corso dall’inizio del 2015. Il governo siriano guidato da Bashar al Assad si trova sulla difensiva: a marzo, ha perso il controllo della provincia agricola settentrionale di Idlib a favore di un’alleanza di milizie in cui prevalgono le forze salafite o jihadiste dal punto di vista militare, e dunque ora politico; a sud, ai confini con la Giordania ed Israele, un altro fronte di ribelli ha conquistato posti di frontiera e basi dell’esercito siriano. Il successo delle offensive dei ribelli nasce dal loro coordinamento effettivo, dall’aumento del sostegno logistico (armi, protezione e rifornimento), finanziario e politico offerto da Turchia, Qatar e Arabia Saudita: oltre a certe affinità politico-ideologiche, per questi Paesi l’obiettivo è sconfiggere a tutti i costi al Assad in quanto alleato dell’Iran, e i salafiti-jihadisti in Siria sono i più efficaci, anche se ancora qaedisti come Jabhat al Nusra. Il regime di al Assad si scontra ancora nei sobborghi di Damasco con formazioni ribelli, mentre sembra che solo nelle montagne del Qalamun, a ridosso con il Libano, le manovre congiunte tra esercito e Hizb’allah libanesi e soldati siriani siano stati in grado di contenere le forze ribelli. Fin dall’inizio del conflitto e della guerra, il regime pensava che nella peggiore delle ipotesi avrebbe impiegato cinque anni per riconquistare l’intero Paese e ristabilire la propria supremazia sulla società siriana. Un metro di tempo che forse ricorda i vecchi piani quinquennali di socialista memoria, peraltro aboliti de facto proprio dai governi “riformisti” di Bashar al Assad. Nonostante gli alleati iraniani e russi e parte della diaspora siriana continuino a finanziare il regime, le risorse a disposizione iniziano realmente a scarseggiare: l’aumento del prezzo del pane, e i ritardi nei pagamenti dei salari dei soldati e delle milizie pro-regime sono indicativi. La mancanza di truppe adeguatamente addestrate e motivate spinge il regime a dipendere sempre più dal sostegno dell’Iran e di Hizb’allah, fomentando così la narrativa delle opposizioni siriane e sunnite per cui Damasco non è altro che un fantoccio di Teheran. Cosa peraltro non esatta: la storia dell’alleanza mostra come nei momenti di difficoltà di uno dei partner, il più forte, oggi l’Iran, è intervenuto massicciamente senza però eliminare l’autonomia politica del più debole, oggi la Siria. Ovviamente, differenze di potere così forti creano timori e frizioni all’interno dell’alleanza. Tuttavia, nulla fa pensare a una sua rottura: neanche l’accordo sul nucleare tra Iran e Stati Uniti.
La conquista di Ramadi a opera dello Stato islamico in Iraq e questi sviluppi in Siria hanno riacceso il dibattito in Europa e Stati Uniti su quali politiche adottare, visto che i raid aerei funzionano solo se a supporto di forze di terra, come i curdi siriani, iracheni o le inconfessabili milizie filo-iraniane in Iraq. La stessa divisione tra ribelli “moderati” e “radicali” in Siria è più che altro una narrazione a uso e consumo del pubblico occidentale visto che sono i radicali a guidare i processi militari, oggi. E sarà così finche i sostenitori sia del regime di al Assad sia dei ribelli continueranno a credere e agire in nome della vittoria assoluta e della capitolazione, se non decapitazione, dell’avversario. In questo “presente” medio-orientale, è la guerra permanente a legittimare le pratiche di governo autoritarie e violente, militari tanto quanto jihadiste.

[Questo articolo è pubblicato anche sul sito di Mente Politica]