8 febbraio 2015, Raitre, ore 21.40 circa. Fabio Fazio e Luciana Littizzetto, come da lunga consuetudine, al termine della puntata domenicale di Che tempo che fa, danno la linea alla successiva programmazione della rete: raccoglie il testimone Presadiretta di Riccardo Iacona, che dedica un’inchiesta alla riforma della scuola, raccontata in modo non troppo lusinghiero; seguirà contorno d’inevitabili polemiche, dal presidente del Consiglio in giù. Balzo in avanti di qualche mese, tra metà aprile e l’inizio di maggio. Stesso posto, stessa ora, stessa circostanza: per quattro puntate consecutive, il lancio in chiusura del talk di Fazio non è dedicato solo all’offerta di Raitre (non più Presadiretta, tocca a Report di Milena Gabanelli), ma agisce in modo trasversale. Con un siparietto di trasgressioni già scritte e indignazioni ben recitate, la Littizzetto ricorda, infatti, allo spettatore che, proprio di domenica sera, sul primo canale, va in onda una fiction di ambientazione scolastica in cui è la protagonista: “non posso dire che su Raiuno c’è Fuoriclasse, proprio non posso dirlo”. L’occasione promozionale (importantissima, per rilevanza e per ascolti) è la stessa, ma non si potrebbero immaginare contenuti, e rappresentazioni della scuola, più distanti.

Fuoriclasse, in onda dal 2011 e giunta alla sua terza stagione, segue le vicende di Isa Passamaglia (Luciana Littizzetto, appunto), docente di lettere in un liceo scientifico torinese, alternando l’attenzione (con miscele diverse a seconda delle annate) tra la sua appassionata attività di insegnante premurosa e attenta e una vita familiare piuttosto intricata. Ispirata ad alcuni racconti di Domenico Starnone (che collabora alla sceneggiatura), la fiction descrive un microcosmo scolastico che, tra mille problemi, carenze, meschinità e burocrazia, riesce a raggiungere i suoi obiettivi, educativi e soprattutto umani. La serie è solo l’ultima di una lunga lista di presenze della scuola sugli schermi televisivi italiani, che, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, si popolano di maestri e professori, alunni e bidelli, presidi e supplenti. Proprio un supplente è Stefano Giusti (Marco Columbro), protagonista delle due brevi stagioni di Caro maestro (Canale 5, 1996-97); sulla stessa direttrice s’innestano poi altre due stagioni di Sei forte, maestro (Canale 5, 2000-01), sempre ambientata nelle elementari, con Emilio Ricci (Emilio Solfrizzi) che fa il maestro a Terni. Il servizio pubblico si affaccia a questo genere timidamente, con Compagni di scuola (2001), in onda sulla seconda rete per una sola stagione: adattamento della spagnola Compañeros, il professore è qui Felice Salina (Massimo Lopez), mentre nella classe del liceo scientifico si affacciano giovani promesse, da Riccardo Scamarcio a Cristiana Capotondi e Laura Chiatti (se gli americani hanno Freaks and Geeks di Judd Apatow, fucina di talenti e di buona scrittura durata solo una stagione, noi ci dobbiamo accontentare di questo). Passa qualche anno, e Canale 5 ci riprova con l’ambizioso esperimento de I liceali, targato Taodue e proseguito per tre stagioni (2008-2011): in un liceo classico di Roma, il prof. Antonio Cicerino (Giorgio Tirabassi) è il punto di riferimento per studenti dalle situazioni familiari difficili o alle prese con amicizie e amori; ma gli anni scolastici passano, non può durare, e la terza stagione rinnova insieme la classe e molti docenti della scuola. Rai insiste, con Fuoriclasse e con Provaci ancora prof!, fiction giunta alla quinta stagione (Raiuno, 2005-in corso): Camilla Baudino (Veronica Pivetti) insegna lettere, ma più che altro collabora con la polizia alla soluzione di casi intricati, incrociando – come nei racconti di Margherita Oggero – scuola e detection (la seconda prevale). Infine, in molta fiction familiare, da I Cesaroni (Canale 5, 2006-2014) a Un medico in famiglia (Raiuno, 1998-in corso), l’istruzione, pur fuoricampo, è sempre presente: contraltare delle vicende domestiche e lavorative, spazio privilegiato per i più giovani membri di famiglie numerose e sempre in progress.

Cambiano gradi e tipi di scuola: dalle elementari di Caro maestro e Sei forte, maestro al ginnasio de I liceali, lo scientifico di Compagni di scuola e Fuoriclasse e il tecnico commerciale di Provaci ancora prof! Cambiano le location: Forte dei Marmi, Terni, e poi in anni recenti Roma e Torino in abbondanza, grazie a facilities produttive e film commission. A non cambiare per nulla sono invece i caratteri di fondo di quello che, a poco a poco, si è configurato, sottotraccia, come un importante sottogenere della fiction italiana. Elementi fissi e piccole variazioni sul tema costituiscono un canovaccio spesso prevedibile, che inevitabilmente rassicura lo spettatore (e lo tiene davanti allo schermo). E allora il protagonista, maestro o professore che sia, è sempre un volto televisivo, con un passato da conduttore (Columbro), comico (Solfrizzi, Lopez, Littizzetto), o comunque attore brillante (Tirabassi, Pivetti): come se si dovesse, e volesse, ogni volta esplicitare che si parlerà di scuola, sì, ma con piglio scanzonato e leggero. Non c’è niente da temere. Alla sacra rappresentazione partecipano altri personaggi del microcosmo scolastico, che sono semplici spalle, comic relief o cattivi caricaturali affidati a caratteristi di ampia esperienza e lungo corso. Il docente al centro della narrazione, severo ma giusto, complice ma rigoroso, spesso in lotta con chi lo circonda per raggiungere un ideale, l’obiettivo vero, è un professore di lettere, o al massimo di filosofia, a sottolineare il radicamento di una cultura che è soprattutto umanistica e a semplificare la vita degli sceneggiatori che possono così ricorrere a poesie, brani di romanzo e altre metafore. Ancora, più che sugli impulsi educativi, dati per scontati, l’intreccio si deve concentrare sulle relazioni sentimentali, in un universo endogamico dove inevitabilmente saranno altri docenti a far battere il cuore ai nostri eroi, o a indurli in tentazione: di nuovo, si parla di scuola, sì, ma è uno sfondo come un altro, non così diverso dagli ospedali e dalle redazioni; un puro setting che rimpolpa le storylines secondarie e al massimo dà un colore e un risalto diverso alle classiche storie di amore contrastato, impossibile e (a fine stagione) di solito risolto in un happy end. In tutto ciò, gli studenti sono un semplice sfondo, le loro storie hanno la verticalità del singolo episodio (poi si passerà ad altri ragazzi), le loro passioni e pulsioni costituiscono il pretesto per mettere alla prova l’empatia del professore, la capacità di sostituirsi o affiancare i genitori, l’abilità nel passare in un attimo dalla scuola alla “scuola di vita” (e via di qualche piccola lacrima). I ragazzi crescono, superano esami e avanzano in altre classi e altre scuole a un ritmo superiore a quello della narrazione (e della produzione!), e così i professori restano al loro posto mentre tutto cambia intorno. Persino nella fiction, ai ragazzi è meglio non affezionarsi troppo.

In un panorama di produzioni italiane già piuttosto asfittico, salvo poche eccezioni, i titoli di ambientazione scolastica finiscono pertanto per dare forma a un sottogenere molto codificato, stabile, in fondo prevedibile. Una formula, nel bene e nel male. Un approdo sicuro. E così le regole di base della produzione, e le aspettative degli spettatori, costruiscono una gabbia dove lo spazio per qualcosa di inatteso è limitato, affidato alle capacità mimetiche del performer protagonista, o alla familiarità che si viene a creare con il mondo in fondo sempre in difficoltà ma sempre buono della scuola, invece che ai pochi guizzi della narrazione. Di più, la trasmissione in prima serata e la conseguente ricerca del pubblico più ampio possibile porta la fiction scolastica (come quella familiare) a contaminare generi e linguaggi, a mescolare un’ampia varietà di ingredienti, e l’equilibrio non sempre riesce bene: da noi non può esistere, per mancanza di attenzione e di potenziali ascolti, un teen drama puro, concentrato solo sulle storie di formazione di un gruppo di adolescenti, dove il mondo di genitori e professori resta a distanza; bisogna piuttosto trattenere alcuni topoi, e poi aggiungervi il tono da commedia, e addizionare la storia d’amore, e non tralasciare un filo di tensione o di “giallo”. E poi nella to-do-list ci sono i temi sociali, i grandi archetipi narrativi, le passioni della soap, e ancora… Il genere si allarga e si diluisce, in modo da essere capace di parlare (nelle intenzioni) a tutti. O, e forse è lo stesso, a nessuno.

La scuola della fiction italiana, così, è sempre buona. Perché è lo sfondo inerte, dato per scontato o limitato allo stereotipo, di narrazioni che potrebbero anche svolgersi altrove. Perché un numero maggiore di sfumature, o di conflitti che non si risolvono in fretta, mal si combinerebbe con il tono comico e leggero, con la promessa grazie a cui lo spettatore già sa che ogni dramma lascerà inevitabilmente posto alla riconciliazione. Perché nella migliore delle tradizioni italiane, la scuola è lo spazio dove meglio si esercitano la buona volontà (di chi insiste nonostante tutto), la passione e il buon cuore (anche nel senso del romanzo di De Amicis). Perché edifici, classi e collegi docenti sono un ideal-tipo, la rappresentazione plastica degli ideali e delle ipocrisie delle “professoresse democratiche” e dei loro “totem culturali”, sono il midcult che diventa Cultura. E perché, in fondo, la scuola della fiction è sempre solo un pretesto. Una cornice nostalgica e immutabile, invariante, che catalizza le memorie, sepolte a lungo, e ormai edulcorate, dell’ormai lontana adolescenza dello spettatore. Una visione laterale, sfumata e addolcita, al massimo contaminata dai racconti di chi ora a scuola ha figli o nipoti. Una scuola – e una televisione – buona proprio perché sta immobile, e si trasfigura nel ricordo.