«La natura accorda a ogni uomo il diritto di uscire dal proprio Paese […] Ogni uomo ha inoltre il diritto di cambiare patria, può rinunciare a quella in cui è nato per sceglierne un’altra». Vale la pena di ricordare queste parole, scritte da Condorcet nel 1791, e assumerle come premessa per discutere del modo in cui l’Europa sta affrontando l’emergenza provocata dal numero sempre crescente di persone che tentano di varcarne illegalmente i confini. Ciò che accade, infatti, non riguarda soltanto la sicurezza o il benessere di chi già gode della protezione delle nostre leggi, cittadini o residenti legali, ma anche il riconoscimento di diritti umani. Una politica di apertura indiscriminata delle frontiere sarebbe irragionevole, per le conseguenze in termini di ordine pubblico e di stabilità economica che essa avrebbe, ma non possiamo ignorare che il modo in cui l’emergenza è stata affrontata fino ad ora ha serie conseguenze sul piano morale. Che mettono in discussione la nostra stessa identità come cittadini di una repubblica ideale.

Rammentare a noi stessi che la costruzione europea non si è alimentata soltanto di interessi economici è importante anche perché quella dei migranti che perdono la vita nel tentativo di attraversare il Mediterraneo non è l’unica crisi umanitaria che mette in discussione le ragioni del progetto europeo. Anche all’interno dei confini dell’Unione l’incapacità di uscire dal circolo vizioso innescato da una visione del contratto sociale retta unicamente dall’idea dello scambio economico ci sta portando sempre più vicini al fallimento dell’ideale europeo.

Basta dare uno sguardo al modo in cui le scelte recenti in materia di governo dei flussi migratori vengono interpretate da osservatori esterni per rendersi conto che abbiamo sperperato quasi del tutto il capitale morale accumulato in questi anni. La fortezza Europa, come ha scritto Kenan Malik, ha creato una barriera emozionale intorno al Continente che sta mettendo in discussione la nostra sensibilità nei confronti delle violazioni dei diritti umani anche quando avvengono a un passo da casa. Questo è il risultato prevedibile della scelta miope di trattare la questione dei migranti come se fosse esclusivamente una questione di ordine pubblico. Si è ritenuto che la criminalizzazione avrebbe rappresentato un incentivo efficace per dissuadere i poveracci che cercano di raggiungere le nostre coste e i tagliagole che li sfruttano. Pazienza se questo modo di affrontare il problema ci impedisce di distinguere un trafficante di uomini da un buon samaritano. Malik sostiene che tale decisione non ha dato alcun contributo a migliorare la situazione, e anzi l’ha con ogni evidenza peggiorata. Sotto questo profilo, le misure di cui si parla in questi giorni non segnano una inversione di tendenza. Colpire i barconi dei trafficanti di esseri umani è facile a dirsi, ma nessuno fino ad ora ha dato una spiegazione credibile di come tale obiettivo si potrebbe realizzare. Lo stesso si può dire per la collaborazione con le autorità libiche, che in questo momento non appaiono interlocutori in grado di offrire garanzie affidabili sul piano della capacità di controllo del territorio o del rispetto dei diritti umani. Che fare dunque? Credo che la proposta di Paul Collier, un’autorità nel campo degli studi sull’emigrazione, andrebbe presa sul serio. Collier sostiene infatti che l’unico modo per gestire in maniera ragionevole l’emergenza sarebbe di tenere ben distinte la lotta all’illegalità dall’obiettivo di ridurre il livello complessivo degli immigrati che entrano nell’Unione. Ciò vuol dire che i risultati ottenuti nel contrasto all’immigrazione clandestina dovrebbero essere bilanciati da politiche di maggiore apertura delle frontiere, e da altri strumenti, come le lotterie impiegate con successo da alcuni Paesi, a cominciare dagli Stati Uniti. Solo così sarà possibile trovare un equilibrio tra le esigenze della sicurezza e del benessere economico e quelle dell’equità cui alla fine del Settecento alludeva Condorcet.