A ridosso della grande manifestazione nazionale di Bologna del 21 marzo promossa dall’associazione Libera, Paolo Prodi ha giustamente sottolineato il valore della coerenza delle scelte individuali, indicando nella raccomandazione il brodo di coltura delle mafie. A margine di questo richiamo “classico” sulla necessità di predicare bene e razzolare meglio, in chiusura del suo intervento, Prodi accenna anche a un altro aspetto che, per la sua rilevanza nel dibattito attuale su mafia e antimafia, vale la pena riprenderee mettere meglio a fuoco. Mi riferisco alla rappresentazione sociale delle mafie, alimentata in primo luogo da prodotti culturali (libri, film, fiction televisive) o da altri “eventi comunicativi” (grandi manifestazioni pubbliche, servizi dei TG, interviste a magistrati in prima serata ecc.) che, molto spesso, per usare le parole di Prodi, dipingono “la mafia come un fenomeno tanto orrendo da essere estraneo a noi nel tempo e nello spazio”. Per quel che da sempre fanno e continuano a fare, credo si possa unanimemente convenire sulla natura mostruosa delle mafie. Ciò, tuttavia, non deve indurre a ritenere che esista il male assoluto, dotato di risorse (soldi, potere, violenza) illimitate, cui si contrappone una società sana o, al massimo, con varie sfumature di grigio. Le ricerche più approfondite sul fenomeno mafioso mettono infatti in luce che le responsabilità solitamente addossate ai mafiosi vadano quantomeno ridistribuite su una platea più ampia di attori sociali, politici, economici e burocratici. Gli esempi al riguardo potrebbero essere numerosi. Per brevità, basti qui citare il caso dall’autostrada Salerno-Reggio Calabria, la cui cattiva nomea (interamente meritata) è solitamente associata allo strapotere esercitato dalla camorra e dalla ‘ndrangheta sui territori che essa attraversa. Ebbene, uno dei magistrati che ha a lungo indagato sui lavori di ammodernamento dell’infrastruttura, a proposito delle responsabilità che hanno condotto alla sua cattiva realizzazione e alla contestuale lievitazione dei costi, scrive che intorno all’autostrada si è realizzata “un’estorsione su una truffa”. Cioè, i mafiosi ricevono denaro e subappalti dalla grande impresa nazionale aggiudicataria di turno dei lavori; in cambio, grazie al controllo del territorio, essi facilitano la realizzazione di truffe (ben più rimunerative) da parte delle imprese. Così facendo – è sempre il magistrato a parlare – alla stregua dei conquistadores spagnoli, dalla Calabria si porta via l’oro (a circa 10 miliardi ammonta il valore dell’ammodernamento della SA-RC) e vi si lascia, peraltro in mani sbagliate, ninnoli e specchietti. Malgrado 15 anni di indagini, processi e sentenze siano concordi nel descrivere questo scenario – quantomeno più articolato di quello in cui la mafia, incontrastata, impone la sua volontà – la SA-RC continua a rimanere, nell’immaginario collettivo, l’emblema delle infiltrazioni mafiose.

L’immagine “mostruosa” e quasi onnipotente delle mafie e dei mafiosi che deriva dal fitto intrecciarsi delle attività comunicative dei mass media, degli attori istituzionali di contrasto e degli stessi attivisti antimafia dovrebbe servire a “non far abbassare la guardia”. Se da un lato tale obiettivo è certamente condivisibile, non bisogna dimenticare che, come insegnano i classici delle scienze sociali, “se gli uomini definiscono reali certe situazioni, esse saranno reali nelle loro conseguenze”. Pertanto, se la ‘ndrangheta è socialmente percepita come la “mafia più potente al mondo” – come recita il sottotitolo del volume che riproduce la relazione della Commissione parlamentate antimafia sulla ‘ndrangheta della XV Legislatura – allora ciò inciderà sicuramente sull’altezza della guardia che lo Stato e la società civile terranno, ma altrettanto certamente produrrà anche altri effetti, magari, come spesso capita, inattesi e non voluti. Per esempio, con questa rappresentazione dovrà (tra le altre cose) confrontarsi un commerciante qualora gli capitasse di dover decidere se pagare il pizzo o denunciare l’estorsore. Con in testa un’idea di mafia che sottolinea potere e ricchezza – anziché un più realistico quadro composto da carcere, tradimenti e violenza – alcuni ragazzini possono avvicinarsi ai gruppi criminali. Perfino i mafiosi, non abitando su Marte, “subiscono” sul piano identitario e comportamentale, l’immagine di loro stessi e dei loro “simili” che la società gli rimanda. Basti ricordare l’influenza che ha avuto, sugli stessi atteggiamenti dei mafiosi, un’opera come “Il padrino” o citare il motivo per il quale, pare, Totò Riina abbia eccezionalmente una sera tirato tardi: in TV trasmettevano “Il capo dei capi”.

Insomma, fa bene Prodi a ricordare agli attivisti che la coerenza individuale è imprescindibile. Forse, ancor prima, per portare avanti una battaglia realistica, sarebbe però necessario sviluppare la capacità di filtrare l’enorme “rumore di fondo” che in tema di mafie, quotidianamente e da più parti, si produce.