Uno dei grandi difetti della sinistra è stata (e in parte è ancora) una certa simpatia per i terroristi. I "resistenti" poveri e malamente armati (o presunti tali) che combattono contro entità statali organizzate spesso, nell’immaginario collettivo della sinistra, hanno ragione a prescindere.

Neppure io – lo confesso – sono sempre stata immune da questa fascinazione: sono cresciuta cantando a squarciagola La locomotiva di Guccini, che narra con toni encomiastici (“gli eroi son tutti giovani e belli”) di un aspirante kamikaze ante litteram che tenta (fortunatamente invano) di massacrare un numero imprecisato di malcapitati, colpevoli solo di viaggiare su un treno di lusso. Altrettanta simpatia hanno sempre suscitato tanti gruppi “rivoluzionari”, dall’Ira all’Eta, e talvolta perfino gli assassini dell’11 settembre. Ovviamente noi ebrei ci sentiamo particolarmente scottati quando questa ondata di simpatia riguarda i gruppi palestinesi - quasi sempre senza alcuna distinzione tra laici e fondamentalisti islamici - e spesso gridiamo all’antisemitismo, che certamente non manca, ma talvolta ci impedisce di vedere quanto il fenomeno sia in realtà generalizzato.

Casomai, ancora di più della simpatia per chi miete vittime civili in Israele, quella che è davvero anomala e sconcertante è l’indifferenza verso l’antisemitismo in Europa: di tutto ciò che è accaduto negli ultimi anni, dalla terribile uccisione di Ilan Halimi agli attentati di Tolosa e Bruxelles fino alla strage nel supermarket kasher di Parigi e all’assalto a una sinagoga a Copenaghen, anche la sinistra sembra semplicemente non accorgersi: è un fenomeno difficile da incasellare nello schema ricchi/poveri o Paesi imperialisti e neocolonialisti/Paesi sfruttati; un fenomeno che richiederebbe categorie nuove, che costringerebbe a rivedere i propri schemi di analisi e comprensione della realtà; molto più semplice, quindi, fingere di non vederlo. (Quando parlo di “sinistra” intendo l’immaginario comune, non chi ricopre cariche istituzionali; fortunatamente sono numerosi i politici, a livello locale e nazionale, che hanno denunciato l’antisemitismo, anche quando si maschera da antisionismo, con parole decise e non ambigue). Più che mai meritoria è stata la scelta del presidente Mattarella di ricordare nel suo discorso di insediamento Stefano Gaj Taché, il bambino ucciso davanti alla sinagoga di Roma. È ben triste, però, pensare che ci sono voluti più di trent’anni perché quell’assassinio di un bambino italiano fosse percepito come una tragedia italiana.

Ancora di più della simpatia per chi miete vittime civili in Israele, quella che è davvero anomala e sconcertante è l’indifferenza verso l’antisemitismo in Europa

Diciamoci la verità: la lotta all’antisemitismo non scalda i cuori, non fa scendere in piazza milioni di persone, né di sinistra, né di centro né di destra. Poi, certo, tra settant’anni la sinistra sarà probabilmente in prima fila a rimpiangere l’ebraismo europeo e dirsi quale danno sia stata per il nostro continente l’emigrazione in massa degli ebrei (non la auspico neanche un po’, ma in certi momenti di sconforto temo sia difficilmente evitabile), così come tutti oggi riconoscono che è stata un danno per la Spagna del XVI secolo o per la Germania degli anni Trenta del Novecento. Ma è un ben magro conforto sapere che se spariremo dall’Europa un giorno qualcuno ci rimpiangerà. L’Europa ha già perso gran parte dei suoi ebrei con la Shoah e tutto sommato se ne è fatta una ragione.

L’antisemitismo e la sua costante sottovalutazione non sono comunque gli unici aspetti preoccupanti del discorso pubblico di oggi: ai nostri giorni permane a volte un sottofondo di simpatia per tutti quelli che impugnano le armi in nome dei propri ideali (per quanto repellenti essi siano) e la tendenza ad arrampicarsi sugli specchi per giustificare le loro azioni. È vero, si è parlato molto di più di Charlie Hebdo che del negozio kasher. Ma come si è parlato di Charlie Hebdo? Infiniti distinguo, prese di distanza dal giornale e dalle sue vignette (legittime, ma del tutto inappropriate nel contesto dei giorni immediatamente successivi alla strage), grandi dichiarazioni sull’importanza di non offendere la religione altrui. Francamente questo genere di discorsi mi spaventa: chi decide dove finisce la satira e inizia l’offesa? Dove si fissa il limite? Non c’è dubbio che molti imam (e anche preti e rabbini) considererebbero gravemente offensive vignette contro l’omofobia o in favore dell’uguaglianza tra uomini e donne. Dovremmo dunque proibirle? Per di più, a chi spetta di decidere se le vignette sono offensive o meno? Qualcuno ha fatto un sondaggio tra tutti i musulmani del mondo dando loro la possibilità di esprimersi liberamente dopo aver visto davvero le vignette? Ovviamente no: si dà per scontato che tutti i musulmani condividano l’opinione di alcune guide religiose che fanno particolarmente chiasso. In questo vedo, dietro lo schermo del “politicamente corretto”, una terribile forma di pregiudizio sottinteso, come se tutti i musulmani fossero fondamentalisti e si riconoscessero pedissequamente nei leader religiosi più estremisti.

Siamo sicuri che tutti i musulmani (per non parlare delle minoranze) siano felici di vivere in regimi autoritari e di essere imprigionati, torturati e uccisi per le loro idee o per il loro modo di vivere?

Altro elemento inquietante che deriva da una falsa idea di rispetto è la diffidenza a prescindere verso qualunque ipotesi di intervento occidentale in difesa dei civili massacrati. In questo caso si invoca, a mio parere del tutto a sproposito, il rispetto per le culture altrui. Ma siamo sicuri che tutti i musulmani (per non parlare delle minoranze) siano felici di vivere in regimi autoritari e di essere imprigionati, torturati e uccisi per le loro idee o per il loro modo di vivere? O che le donne siano entusiaste di essere private dei più elementari diritti e magari lapidate? Siamo sicuri che lasciare tutti gli abitanti del Medioriente (comprese le minoranze etniche e religiose) liberi di farsi massacrare senza che l’Occidente imperialista intervenga a disturbare sia davvero una forma di rispetto per la loro cultura? O non è invece una forma inconscia di razzismo per cui si dà per scontato che alcuni valori (diritti umani, democrazia, rispetto per le differenze) siano esclusivamente occidentali e che gli altri non abbiano né la volontà né la capacità di accoglierli?

La democrazia non si può esportare; è un assioma così diffuso che nessuno sente il bisogno di dimostrarlo. Personalmente sono ben felice che due secoli fa Napoleone violando questa regola aurea abbia fatto uscire i miei antenati dai ghetti piemontesi. Ma davvero, al di là dei proclami, in Iraq e in Afghanistan è stata portata la democrazia nel senso in cui la intendiamo nei Paesi occidentali? Magari qualcuno lo avesse fatto o ci avesse veramente provato! Ma se in realtà ci si è semplicemente limitati a barcamenarsi tra leader e signori della guerra locali cercando di allearsi con il meno peggio, forse sarebbe giusto smetterla di dare la colpa alla democrazia, che è tutt’altra cosa. Certo, sono stati commessi errori che hanno in molti casi peggiorato le cose (oggi ci sono purtroppo buone ragioni per rimpiangere Saddam Hussain o Gheddafi), ed è concreto il rischio che altri errori saranno commessi in futuro. Ma un conto è discutere concretamente su cosa si può o non si può fare e invitare alla cautela, tutt’altra cosa è legittimare moralmente l’indifferenza verso le sofferenze altrui e spacciarla per rispetto. Purtroppo si torna al problema che ponevo all’inizio: non sempre, nel comune sentire della sinistra, i massacri di civili trovano il biasimo che dovrebbero trovare.

Diritti umani, rispetto per la vita, libertà di espressione, accettazione delle differenze: valori “occidentali”, “borghesi”; spesso a sinistra si è giustamente denunciata l’ipocrisia con cui talvolta vengono invocati. Ma ciò non significa che questi valori non siano comunque in sé sacrosanti, o che non siano validi per l’intera umanità. Purtroppo alcuni a volte sembrano dimenticarlo.