La Pinacoteca nazionale di Bologna fino al 12 aprile ospita la mostra Too Early Too Late. Middle East and Modernity. Si tratta di una complessa riflessione costruita dal curatore Marco Scotini attorno al tema dell'incontro tra Medioriente e Occidente, in una prospettiva temporale e geografica inusuale. Troppo presto arrivano le istanze delle rivoluzioni e troppo tardi cercano di essere realizzate: questa visione viene posta come fondamento dell'esposizione, partendo dal film omonimo di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet (Trop tôt/trop tard, 1981) che, intrecciando riflessioni di Friedrich Engels sulla rivoluzione francese e di Mahmoud Hussein sulla lotta di classe in Egitto, ritorna sui paesaggi bretoni e sulle terre tra Alessandria e Assuan.

Il fattore tempo è determinante per il corso degli eventi, ma il tempo non è lineare: velocità diverse e ritorni portano il tempo storico a concretizzarsi in dimensioni culturali d'avanguardia o di conservazione, di modernità o di arcaismo, situazioni a volte simultanee in aree geografiche limitrofe ma separate.

Già la definizione di Medioriente, o meglio, di Middle East mostra come la sua pretesa omogeneità nasca da uno sguardo esterno, uno sguardo occidentale: furono i britannici in epoca coloniale che scelsero di indicare così ciò che stava tra il Near East dell'Impero Ottomano e il Far East dell'India e della Cina. I contatti tra Medioriente e Occidente sono stati, nella storia, più che incontri, veri e propri eventi, con ripercussioni politiche, sociali e culturali per entrambi: le crociate, la campagna d'Egitto, l'espansione dell'Urss. Ed è proprio dopo la caduta del Muro di Berlino e la disgregazione del Blocco sovietico che il confine di quest'area inizia a dilatarsi verso Est, verso il Caucaso e l'Asia Centrale, spostando il proprio baricentro tra la Turchia e l'Iran.

Il punto di congiunzione con Bologna risale al primo momento di relazione tra i due mondi, le crociate: secondo il Concilio di Vienna del 1312, la sua università (insieme a Parigi, Oxford, Salamanca e Avignone) doveva istituire una cattedra di arabo, ebraico e siriaco, dato che lo scontro è anche occasione di conoscenza. Ma è a Napoleone e alla campagna militare del 1798 che si deve l'irruzione della modernità in quell'area, durante la quale giunsero in Egitto (e Siria) anche un centinaio di scienziati e ingegneri; dai loro rilievi, studi e disegni prese forma La Description de l'Égypte (1809-1828), monumentale opera (in formato Mammutfolio, 100x81cm) capace di diffondere in Occidente gli splendori e misteri della terra dall'altro lato del Mediterraneo, generando mode e trasformazioni del gusto.

Per il politologo tunisino Hamadi Redissi l'ipotesi è che questo sbarco della modernità napoleonica nel primo Ottocento abbia destrutturato l'islam di fatto ancora medioevale “senza che l'islam sia riuscito fino a oggi a ritrovare un'unità sostanziale in grado di riconciliarlo con se stesso e con i tempi moderni”. Ad aggiungere complessità è stato l'incontro successivo con l'Occidente, non meno traumatico: l'espansione dell'Urss. La modernità del regime socialista si è mischiata alle radici culturali antiche, imponendo la laicizzazione di quelle società. Ed è a partire dalla successiva dissoluzione del Blocco sovietico che l'incontro tra Medioriente e Occidente è tornato in scena come evento di scontro e relazione.

Per indagare tutto questo, Scotini ha interrogato il lavoro degli artisti di questo Medioriente esteso fino all'Asia centrale: quello che emerge è un sistema di legami, riletture, influenze reciproche, testimoniate anche dall'appartenenza a collezioni private italiane di tutte le opere in mostra. Guerra, partecipazione, censura, propaganda, relitti del passato e rivoluzioni politiche e culturali: il percorso della mostra ci fa attraversare un mondo in tensione e trasformazione e in costante relazione con “noi”, quell'Occidente che di volta in volta impone (la modernità, ad esempio), teme, supporta, influenza, sfrutta, dimentica l'“altro”.

Dei tanti lavori in mostra, emblematico il film di Wael Shawky, Cabaret Crusades, che racconta le crociate attraverso il teatro delle marionette italiane del Settecento, ma dal punto di vista arabo. Usate per secoli per una narrazione, danno corpo oggi a quella opposta, evocando un senso di manipolazione comunque bilaterale. Il punto di vista è fondamentale anche nel lavoro di Kader Attia, che da qualche anno sta sviluppando una ricerca quasi antropologica attorno alla Grande guerra, Repair Analysis: una riflessione sul diverso rapporto tra malattia, ferita e riparazione nella cultura africana ed europea. Se nella cultura africana esistono maschere che raffigurano volti di persone malate o ferite per esorcizzarne il male, i gueules cassées, i soldati europei (provenienti anche dalle colonie) feriti nelle trincee e tornati con il viso deformato (e la psiche lacerata) sono stati spesso emarginati al loro ritorno.

Due lavori in mostra dialogano con Pasolini che, dopo aver studiato con Longhi l'arte medioevale italiana e la sua iconografia religiosa, ha cercato nell'Israele dei primi anni Sessanta i luoghi per il suo Vangelo senza però trovarli. L'immaginario occidentale è più forte della realtà dei luoghi, dei kibbutzim troppo moderni e delle grotte dei beduini del deserto, troppo arcaiche. Dai Sopralluoghi in Palestina al Vangelo secondo Matteo (sovrapposti nel film di Amir Yatziv e proiettati sugli affreschi trecenteschi della bolognese chiesa di Mezzaratta), Matera è allora, per sostituzione, più Terrasanta di quella reale, perché ferma nel tempo della rappresentazione, come un presepe. I palestinesi, assenti nella riflessione di Pasolini, tornano nel film di Ayreen Anastas, richiamando su di sé uno sguardo diretto, attento, messo a fuoco.