Nella Francia di fine XX-inizio XXI secolo è andata emergendo una «questione sociale» incentrata sui problemi della disoccupazione e sulla crescente disuguaglianza che ne deriva. Dalla classe politica dirigente la questione è stata affrontata principalmente attraverso misure di politica securitaria, manifestatasi in forme di intervento volte da un canto a creare una retorica sull’insicurezza della società francese, minacciata dall’aumento di una criminalità concentrata soprattutto nella delinquenza giovanile; dall’altro sul rafforzamento della visibilità pubblica delle forze dell’ordine, la cui presenza è stata ampiamente accresciuta nelle aree considerate più a rischio. Rispetto alla «questione sociale» di fine XIX secolo, in cui le classes laborieuses erano associate alle classes dangereuses, in epoca attuale la questione sociale si è spostata su classi sempre meno lavoratrici viste e rappresentate come sempre più pericolose nonostante i dati statistici rilevino una tendenziale diminuzione dei reati sia contro le persone sia contro i beni. Le classes dangereuses di questo inizio di XXI secolo sono concentrate in quartieri degradati, abitati da un’elevata percentuale di popolazione di origine immigrata, spesso da ex colonie, spesso scarsamente istruita e spesso priva di un’occupazione.

Scenari di questo genere sono rinvenibili in diversi Paesi europei, tra cui sicuramente anche l’Italia, ma una peculiarità del contesto francese risiede nella particolare composizione di classe della società, in cui la dimensione etnica e la dimensione economica sono tra loro fortemente interconnesse nella definizione delle appartenenze sociali. Le ricadute del passato coloniale si riflettono insomma in una società in cui le «classi subalterne» coincidono tendenzialmente con la popolazione proveniente dalle ex colonie. Ciò non è affatto un unicum nel contesto europeo – basti pensare alle società britannica, olandese, belga, nonché ai recenti mutamenti della composizione di classe anche in Italia. Tutti i Paesi con un importante passato coloniale ne riportano ancora tracce importanti, ma si ritiene che nella composizione della società francese si riflettano non solo l’esperienza coloniale nel suo complesso, non solo dunque l’esercizio del dominio su alcuni territori per un certo periodo di tempo, bensì anche le tensioni e i conflitti che hanno accompagnato la decolonizzazione.

In parte tali tensioni si riverberano oggi in una segregazione spaziale, operata su evidenti criteri sociali, economici e razziali, che richiama fortemente il passato ordine coloniale. Nessi di continuità tra passato e presente traspaiono in maniera piuttosto evidente dallo studio che Didier Fassin, sociologo e antropologo di fama riconosciuta, ha condotto sulla polizia francese addetta alla tutela dell’ordine pubblico nei cosiddetti quartieri sensibili delle periferie parigine (Zus, Zones urbaines sensibles), in cui i rapporti tra popolazione e forze dell’ordine si basano su controlli sempre più frequenti dei documenti di identità per passare, eventualmente, ad accuse di oltraggio e resistenza, fermi, arresti, interrogatori umilianti e degradanti in virtù dell’esercizio di una violenza legittima.

Il degrado sociale di questi quartieri e i sentimenti di insicurezza che ne derivano sono dovuti anche alla negligenza e all’abbandono di tali aree da parte dei poteri pubblici

Il degrado sociale di questi quartieri e i sentimenti di insicurezza che ne derivano sono dovuti anche alla negligenza e all’abbandono di tali aree da parte dei poteri pubblici. Considerati dall’esterno questi quartieri appaiono aree di insicurezza in virtù del profilo sociale di vi risiede, dall’interno la prospettiva è diversa, ma i sentimenti di insicurezza non sono minori. Essi non derivano dalle presunte minacce che possono rappresentare povertà, disoccupazione e immigrazione, bensì dal disimpegno che si percepisce rispetto al ruolo delle autorità pubbliche. Dunque un’insicurezza che, come osserva Fassin, è prodotta dall’abbandono dello Stato sociale (p. 90) in favore di politiche securitarie di più semplice realizzazione, nonché di maggiore efficacia politica. Affrontare il disagio sociale delle popolazioni delle banlieues attraverso l’intensificazione della presenza delle forze dell’ordine, dei controlli di documenti e degli arresti, non in effetti sui meccanismi di produzione della disuguaglianza sociale. Al contrario: il ricorso a politiche securitarie contribuisce a rafforzare l’immagine della pericolosità delle periferie agli occhi di chi non vi vive, mentre aumenta nei suoi abitanti l’impressione di essere oggetto di stigmatizzazioni sociali su cui si legittima di fatto il loro scivolamento ai margini della tutela che uno Stato di diritto dovrebbe garantire.

Non è facile, come storici, avvicinarsi a uno studio etnografico svolto con rigore secondo i crismi che questa disciplina richiede; la distanza di approccio metodologico aiuta tuttavia a mantenere uno sguardo d’insieme su un’opera che ci pare estremamente stimolante per una riflessione più generale sulle forme che la disuguaglianza sociale ha assunto nelle società occidentali del tempo presente. L’opera di Didier Fassin è la narrazione, costantemente arricchita di riflessioni, esempi tratti da altri contesti e ricca di riferimenti bibliografici, di una ricerca etnografica che lo studioso ha condotto presso una Brigata anticrimine (Bac, Brigade anti-criminalité) operante in una «classica» banlieue parigina di inizio XXI secolo. Per un periodo complessivo di quindici mesi – dal maggio 2005 al febbraio 2006 (eccetto una breve sospensione a seguito della dichiarazione dello stato di emergenza), e poi dal febbraio 2007 al giugno 2007 – Fassin è «entrato» nell’esperienza della polizia al fine di cogliere la quotidianità nella vita delle periferie così come questa è vissuta e percepita dall’istituzione preposta alla tutela dell’ordine pubblico. Gli intenti dell’autore non si fermano tuttavia qui. A partire dal presupposto secondo cui l’etnografia «condivide degli interessi con la democrazia» (p. 304), lo studioso francese aspira a richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica su una realtà stridente, una realtà che «la potenza del discorso sull’integrazione alla francese tende a eludere o occultare» (p. 93). La realtà di un Paese «che difende con ardore i principi repubblicani» (p. 313), ma che non riesce ad affrontare problemi di giustizia sociale se non trasformandoli in una «questione razziale» (p. 311) fondata su una presunta coincidenza tra minoranze e delinquenza, non affrontabile se non in termini di politica securitaria. Questa, ci pare, è la questione ultima a cui lo studio di Fassin aspira a offrire risposte e su cui auspica un intervento politico.

La ricerca si basa su una serie di studi sulle forze dell’ordine avviati negli Stati Uniti, in Canada e in Gran Bretagna già alla metà degli anni Sessanta. In particolare l’autore riprende una tesi sostenuta da Richard Ericson (Reproducing Order. A Study of Patrol Work, University of Toronto Press, 1982) in merito ad alcune pratiche osservate presso la polizia canadese, secondo cui la finalità ultima dell’operato della polizia consisterebbe non tanto nel mantenimento dell’ordine pubblico quanto piuttosto nella «riproduzione dell’ordine sociale». A partire da simili presupposti Fassin segue da vicino le molteplici modalità attraverso cui le Brigate anticrimine della periferia parigina contribuiscono al mantenimento dell’ordine sociale in misura decisamente maggiore rispetto al ruolo esercitata in merito alla protezione dell’ordine pubblico.

A differenza delle immagini su cui si è costruita e legittimata una politica di intervento pubblico securitario, nelle banlieues non si registrano particolari tassi di criminalità. Senza ovviamente negare l’esistenza di situazioni difficili, di fenomeni di illegalità, violenza e anche di criminalità, lo studioso è colpito dalla scarsa spettacolarità che accompagna l’attività delle squadre di polizia impegnate nelle periferie. Ai pattugliamenti costanti cui questi quartieri sono sottoposti solo in casi eccezionali seguono interventi clamorosi, in cui le forze dell’ordine possano davvero sentirsi nel pieno esercizio del proprio ruolo. Una delle pratiche più frequenti, che scandiscono la relativa monotonia dell’attività diurna e notturna di pattugliamento delle Bac riguarda i controlli, la richiesta di documenti, spesso senza alcun motivo preciso o senza che vi siano sospetti fondati. Per un giovane di colore, di presunta origine nordafricana o sub sahariana, è sufficiente trovarsi per strada, davanti a una stazione o a una fermata di autobus, per essere sottoposto alla richiesta dei documenti, spesso accompagnata da commenti sarcastici o osservazioni denigranti, volte a schernire il sottoposto e fargli gratuitamente percepire l’asimmetria dei rapporti di forza. L’arbitrarietà con cui le forze dell’ordine sottopongono – assoggettandoli, sostiene Fassin – individui potenzialmente criminali in virtù dell’aspetto fisico e della presunta origine immigrata è illustrata attraverso numerosi esempi riportati dallo studioso. Ed è in queste pratiche che si esercita un costante richiamo ai criteri costitutivi dell’ordine sociale. Il senso della richiesta discrezionale e arbitraria di documenti a un magrebino fermo a una stazione di un bus non ha dunque nulla a che fare con la tutela dell’ordine pubblico, risiede piuttosto nella volontà di dimostrare «un puro rapporto di forza che funziona come un richiamo all’ordine […] sociale. Questo ordine sociale è quello di una disuguaglianza (fra il poliziotto e il giovane) e di un’ingiustizia (rispetto al diritto, e, più semplicemente, alla dignità) che bisogna apprendere sul proprio corpo» (p. 141).

Ai pattugliamenti costanti cui questi quartieri sono sottoposti solo in casi eccezionali seguono interventi clamorosi, in cui le forze dell’ordine possano davvero sentirsi nel pieno esercizio del proprio ruolo

Questo è un aspetto di grande rilievo per la comprensione dei meccanismi profondi su cui si è di fatto sviluppata una particolare dinamica tra «guardie» e «ladri» nelle banlieues. «La ripetizione delle stesse scene in una routine mortificante – spiega Fassin – è una vera e propria educazione fisica nel corso della quale si interiorizza il proprio posto nella società [corsivo mio]. L’abitudine all’umiliazione deve produrre l’habitus dell’umiliato» (ibidem). Il ricorso alla violenza rappresenta inoltre uno strumento ulteriore, fondamentale e ampiamente impiegato, nell’educazione all’habitus dell’umiliato. Violenza che non di rado viene agita in maniera manifesta, ma che molto più spesso si esprime in forme verbali o simboliche finalizzate esclusivamente a intimidire il presunto criminale facendogli esperire l’asimmetria dei rapporti di forza. Fassin non presuppone necessariamente la consapevolezza del senso ultimo dell’azione delle forze dell’ordine da parte delle stesse, le quali insistono a ribadire che la loro funzione sia quella di catturare «ladri e delinquenti» e di garantire l’ordine. Eppure, attraverso le sue osservazioni, egli disvela diversi aspetti fondamentali che ci aiutano a comprendere la più profonda funzione sociale della polizia delle banlieues, nonché i diversi fattori che contribuiscono alla configurazione di un rapporto particolarmente teso tra questa e gli abitanti delle periferie.

Un elemento particolarmente significativo e che in certa misura istituisce stretti nessi di continuità tra il passato coloniale francese e l’attuale contesto postcoloniale, risiede nell’enorme distanza sociale e culturale volutamente creata tra forze dell’ordine e popolazione. La Bac su cui Fassin ha svolto la sua ricerca era composta esclusivamente da francesi bianchi cresciuti e socializzati in zone rurali e provinciali del Paese. I commissariati di periferia sono infatti spesso la prima destinazione di giovani poliziotti provenienti da piccole province, ai quali si prospetta un’immagine della periferia come luogo pericoloso (una «giungla»), abitato da «selvaggi», nemici da temere che vivono in una situazione di stato di guerra. L’impiego di giovani di provincia nel pattugliamenti delle banlieues produce pertanto una situazione di particolare straniamento, di pronunciata contrapposizione tra segmenti sociali culturalmente molto distanti. Come una commissaria di un’unità di periferia spiegò a Fassin: «La polizia è gli immigrati interni contro gli immigrati esterni». La distanza sociale e culturale dalla realtà delle banlieues è importante, secondo Fassin, per comprendere i sentimenti di «esilio che i poliziotti avevano l’impressione di vivere quando prendevano servizio nelle periferie». Esilio che «li separava […] dal mondo circostante instaurando una doppia frontiera: quella della diversità e quella dell’ostilità» (p. 81) e che poneva il lavoro delle forze dell’ordine nel solco della storia coloniale del Paese, mettendo in campo rapporti di dominio che andavano al di là delle azioni individuali degli agenti. Un confronto sulla base di rapporti di reciproca ostilità risulta insomma in qualche modo già programmato sulla base di retaggi culturali, esperienze e saperi che l’autore definisce in termini di situazione postcoloniale e che in altri studi ha messo in relazione con un processo di embodiment of the past (cfr. The Embodied Past. From Paranoid Style to Politics of Memory, «South Africa. Social Anthropology», 3, 2008).

Un secondo fattore su cui l’autore si sofferma nelle proprie osservazioni riguarda le dinamiche che si instaurano con la popolazione che viveva quotidianamente i pattugliamenti della Bac. Così come il personale della Bac era stato istruito a considerare con massimo sospetto la popolazione del quartiere assegnato, così anche la popolazione oggetto di pattugliamenti e di reiterati controlli di identità aveva imparato a diffidare delle forze dell’ordine, percependole più come una minaccia o una causa di esacerbazione di conflitti piuttosto che un’istituzione a cui fare ricorso in caso di bisogno. A questo proposito l’autore riporta diversi esempi di situazioni in cui l’intervento della Bac in una situazione di disordine o conflitto aveva sortito effetti aggravanti per coloro che avevano richiesto soccorso, e al contempo descrive come i giovani delle banlieues abbiano imparato a relazionarsi nella maniera per loro più vantaggiosa con le forze dell’ordine, per non cadere nelle «provocazioni» di queste e sfuggire alle frequenti accuse di oltraggio e resistenza.

L’ostilità mostrata dalla popolazione delle classes dangereuses è percepita dalle forze dell’ordine come se riguardasse l’intera società francese. Poiché le procedure giudiziarie dello stato di diritto francese portano spesso alla dichiarazione di innocenza o di insufficienza di prove nei confronti dei presunti criminali catturati dalle Bac, forte è la sensazione che lo Stato e la società non vogliano riconoscere i meriti delle forze dell’ordine. Su tali sentimenti di frustrazione e di risentimento verso una società e delle istituzioni ingrate si sarebbe sviluppata secondo l’autore una particolare «economia morale del lavoro della polizia» (p. 277) che, se compresa, rende meglio intelligibili, pur se non condivisibili, pratiche che altrimenti risulterebbero semplicemente immorali. Fassin evidenzia come nelle forze dell’ordine sia forte la percezione di uno scarto tra un principio semplice di giustizia e la giustizia che emerge dalle sentenze delle procedure giudiziarie. In tale percezione di scarto tra principi e realtà risiederebbero a suo avviso le ragioni degli eccessi di violenza gratuita da parte delle forze dell’ordine, alle quali appare lecito «maltrattare un individuo che si presume colpevole, a maggior ragione se non si ha la sicurezza che verrà poi condannato dall’istituzione giudiziaria» (ibidem). Atteggiamenti vendicativi nei confronti di presunti criminali per i quali non si esclude anche un’ingiusta impunità non si spiegherebbero pertanto in virtù di una straordinaria quanto improbabile crudeltà delle forze dell’ordine. Per essere compresi, gli eccessi di violenza gratuita riscontrabili in alcuni settori delle forze dell’ordine secondo l’autore devono essere posti in relazione alla particolare posizione in cui questi si trovano nel campo di tensione tra istituzioni e società.

Auspichiamo che la traduzione e la pubblicazione dello studio di Fassin in Italia possa favorire una riflessione, non solo all’interno delle ristrette comunità scientifiche degli "addetti ai lavori"

Dopo i quindici mesi trascorsi presso una medesima unità di polizia l’autore avrebbe desiderato proseguire la ricerca per osservare l’attività di altre unità operanti in altre zone, ma dal giugno 2007 non ha più ottenuto alcuna autorizzazione a seguire da vicino il modo di operare delle forze dell’ordine. Lo studio termina pertanto con la conclusione del periodo di osservazioni presso la medesima Bac. Le ragioni per cui l’autore ha deciso di pubblicare le osservazioni raccolte nei quindici mesi di ricerca risiedono principalmente nel desiderio di stimolare un dibattito aperto, critico e libero da vincoli di lealtà alle istanze di controllo dello Stato francese, su come le forze dell’ordine stiano contribuendo a rafforzare la disuguaglianza sociale e gli steccati razziali su cui si sta cristallizzando l’ordine sociale postcoloniale francese.

Inutile concludere osservando che altrettanto auspichiamo anche per il contesto italiano, ossia che la traduzione e la pubblicazione dello studio di Fassin in Italia possa favorire una riflessione, non solo all’interno delle ristrette comunità scientifiche degli «addetti ai lavori». Lo studio offre infatti stimoli particolarmente interessanti per chiunque, indipendentemente dalle proprie competenze scientifiche, sia interessato a capire i complessi procedimenti di riproduzione dell’ordine sociale esistente, incluse le pratiche di espressione e consolidamento delle disuguaglianze sociali che le accompagnano.