Il Medioriente esplode. Il conflitto siriano e la guerra civile irachena decompongono un quadro  geopolitico che potrebbe presto vedere tracciati nuovi confini. La confessionalizzazione dei conflitti, in primo luogo quello infraislamico tra sunniti e sciiti, che vede protagonisti non solo  attori locali, regimi e oppositori, ma anche transnazionali, come i gruppi jihadisti e le potenze confessionali  protettrici, Arabia Saudita e Turchia per i sunniti, Iran per gli sciiti, non si lascia ridurre alle esigenze della Realpolitik. Il fattore identitario si sovrappone, dilatandolo, a quello nazionale. Quello in corso in Medioriente sembra il tentativo di dare forma ad assetti territoriali omogenei: su base etnica, confessionale, ideologica. Producendo una omologazione che pare rendere impossibile l'esistenza di società plurali.

In Siria il governo di Damasco ha riconquistato parte del controllo del territorio. Grazie al sostegno iraniano e degli Hezbollah, ai divergenti interessi di Ankara e Ryad, divise da ambizioni egemoniche e dal giudizio sui Fratelli Musulmani, ma anche alla convinzione della comunità internazionale che il trionfo in campo sunnita delle milizie jihadiste sarebbe peggiore della permanenza di Assad al potere. In Iraq l'avanzata dell'Isis, che controlla buona parte delle province sunnite, dando voce anche a chi non è islamista ma si batte contro un vendicativo potere sciita, manda in soffitta quel che rimane dello Stato unitario. Con i curdi che approfittano per rilanciare il sogno, contagioso, dell'indipendenza del Kurdistan. Comunque vada, anche se l'annuncio della creazione uno Stato islamico nel territorio transfrontaliero sunnita tra Iraq e Siria e l'autoproclamazione di Al Baghdadi a nuovo califfo riuscisse a produrre la reazione collettiva dei suoi molti nemici, dall'Iran agli Usa, dagli Hezbollah a Israele, dai turchi ai sauditi, la convivenza dentro i vecchi contenitori nazionali appare problematica. Il rischio è che, come in un effetto domino, il collasso delle frontiere nate dal tracollo dell'impero ottomano produca reazioni a catena difficilmente controllabili.

Nel frattempo, si riaccende anche la tensione  tra israeliani e palestinesi. Non è un caso che a innescare la spirale della crisi e a produrre reazioni destinate a alimentare l'odio siano  fazioni ostili alla soluzione “due popoli, due Stati”. L'uccisione dei tre ragazzi israeliani rapiti e la  rappresaglia su un ragazzo palestinese sono intervenute nel momento in cui, dopo anni di rottura, l'Anp e Hamas avevano formato un governo di unità nazionale con l'obiettivo di condurre i Territori a elezioni. La destra estrema presente nel governo Netanyahu ne approfitta per invocare una definitiva resa dei conti con Hamas. Ma una nuova operazione “Piombo Fuso” seppellirebbe qualsiasi ipotesi negoziale, consegnando lo stesso Hamas, privo ormai dell'appoggio dei suoi confratelli egiziani, alle sue ali estreme. È augurabile che Netanyahu mediti prima di innescare un conflitto che avrebbe ripercussioni rilevantissime in tutta la regione.

Quanto al comunicante versante nordafricano, il Mufti del Cairo ha confermato la condanna a morte per i dirigenti dei Fratelli Musulmani, tra i quali la Guida Badie. Se il leader religioso della Fratellanza salisse al patibolo verrebbe varcata una linea rossa che nemmeno Nasser aveva oltrepassato. Il nuovo padrone dell'Egitto, il generale al Sisi, sembra aver scelto la via algerina: l'eradicazione totale dell'organizzazione. Una scelta che, se perseguita, condurrebbe molti dei quadri  islamisti a ascoltare le sirene jihadiste, andando ad alimentare i gruppi combattenti del Sinai e le cellule qaediste che hanno scelto di operare nei centri urbani. La repressione, come è noto, non riguarda anche i laici. Come i giovani militanti  del Movimento 6 aprile all'origine della prima rivolta di piazza Tahrir, che chiedono democrazia, non solo schede nelle urne. L'idea  che le primavere arabe costituissero un precedente dal quale non era più possibile tornare indietro  mostra tutti i suoi limiti. Solo la transizione tunisina conserva, seppure con difficoltà, tratti pluralistici. Quanto alla Libia, l'assenza di un potere centrale riconosciuto capace di imporre la sua sovranità, l'ampliarsi della frattura centro/periferia, le dinamiche tribali, la presenza di gruppi jihadisti non rendono certo meno problematica la situazione.

Un quadro difficile. Destinato a riverberare i suoi effetti su sicurezza, immigrazione, energia. Per renderlo meno problematico, o comunque governabile, ci vorrebbero una politica e una leadership che non si vedono all'orizzonte. Anche se adottassero una linea diversa, gli Stati Uniti non sono pù in grado di fare da gendarme mondiale. Né lo vogliono. Quanto all'Europa: cercasi.