Che cos’è il «pensiero unico»? Per lungo tempo, tra gli anni Ottanta e Novanta, veniva lamentata da più parti l’esistenza a livello planetario di un mainstream del pensiero politico-economico genericamente definito come neo-liberista. Le svolte imposte al mondo anglosassone da Reagan e dalla Thatcher avevano finito per condizionare il mondo intero, soprattutto dopo la fine dell’Impero sovietico e il conseguente crollo del mito comunista.

In realtà non era la prima volta che una dottrina o una linea politica si imponevano in modo così pervasivo: basti pensare alla rivoluzione keynesiana nel secondo dopoguerra o, risalendo nei secoli, al mercantilismo degli Stati assoluti. Ebbene, anche questi anni di crisi hanno ormai un loro pensiero unico: quello che riconduce le cause profonde della tempesta finanziaria del 2007-08, e della conseguente recessione che ha mandato in sofferenza intere nazioni, proprio ai paradigmi liberisti: deregulation, competizione sfrenata, globalizzazione dei mercati. Un nuovo mainstream che ha trovato anche il suo riconosciuto campione nel Premio Nobel Paul Krugman e nelle sue note tesi contro le scelte politico-legislative che, allentando le briglie agli operatori economici e finanziari, avrebbero favorito l’emergere di un capitalismo rapace e incontrollato che, alla lunga, non avrebbe potuto che implodere su se stesso.

Anche in questo contesto, però, ogni tanto qualche voce dissenziente si leva per avanzare alcuni seri dubbi sulla supposta evidenza di queste analisi. È il caso di Niall Ferguson, storico inglese di vasta e riconosciuta fama, che nel suo Il grande declino. Come crollano le istituzioni e muoiono le economie (Mondadori, 2013), propone una visione delle cose nettamente diversa e alternativa. Dopo avere precisato non essere sua intenzione riabilitare banchieri spregiudicati e finanzieri d’assalto, giudica quella versione dei fatti «quasi interamente sbagliata» e si impegna, grazie a un solido impianto argomentativo e ad una documentazione tecnica relativa a situazioni concrete, a smontare uno dopo l’altro i luoghi comuni più in voga sulle cause della crisi.

Innanzitutto sostiene come non risponda al vero che il virus che ha fiaccato il tessuto del sistema economico mondiale sia la deregolamentazione dei mercati finanziari e, di conseguenza, che la medicina opportuna da somministrare consista ora in una legislazione transnazionale che imponga controlli complessi e capillari, sul modello degli accordi di Basilea in materia bancaria. Così come non sarebbe affatto vero che storicamente sia riscontrabile una correlazione tra controlli più severi sulle banche e aumento di produttività del sistema economico, e viceversa. 

Al contrario, secondo Ferguson «la crisi finanziaria iniziata nel 2007 affonda le radici in una regolamentazione ipercomplessa». Ne sono un esempio le norme che spingevano i manager delle banche a massimizzare il valore degli asset relativi al proprio capitale, purché convenzionalmente classificati come a basso rischio o quelle che finirono per conferire un eccesso di rilievo alle valutazioni delle agenzie di rating. In questo quadro, una responsabilità decisiva la porterebbero le scelte di politica legislativa di governi e parlamenti, come quelle con cui il Congresso americano favorì l’acquisizione di proprietà di immobili per le famiglie a basso reddito prive di adeguate garanzie, creando così un’alterazione nell’equilibrio del mercato. Per non parlare delle colpe proprio dei regolatori per eccellenza, cioè le banche centrali, a cominciare dalla Federal Reserve e dalla sua filosofia dell’intervento asimmetrico: sostenere il valore degli asset in caso di caduta dei relativi prezzi, ma rimanere inerte in caso di aumenti anche repentini, fornendo così informazioni errate al mercato e favorendo lo sviluppo delle bolle speculative.

Insomma, un coacervo di responsabilità private e pubbliche, ma in cui il ruolo negativo giocato da legislatori e regolatori è messo nella dovuta luce, come raramente accade nella recente pubblicistica in argomento.

Ma il libro di Ferguson va molto oltre il contingente e cerca di scavare in quelle che egli ritiene essere le cause più profonde del malessere dell’Occidente. Nella sua visione delle cose la crisi economica di questi anni è solo un epifenomeno di un declino strisciante dovuto a ragioni che potremmo definire di ordine giuridico e istituzionale. Secondo l’autore, la grandezza di questa parte di mondo è stata costruita nei secoli grazie alle lotte per ottenere ordinamenti che si sono rivelati pienamente funzionali allo sviluppo economico e all’edificazione di società libere, inclusive, dinamiche, competitive. Con l’occhio tipico del pensatore britannico, egli individua nella rule of law, cioè in un fattore giuridico-istituzionale plasmato dall’evoluzione storica, la ragione determinante dello splendore della società civile del Regno Unito. Per converso, i difetti che questa società evidenzia e i pericoli cui potrebbe andare incontro in futuro sono riconducibili all’erosione dei principi di libertà alla base del tradizionale sistema giuridico, determinati dall’ipertrofia dell’azione dello Stato (anche nel campo della sicurezza), da leggi sempre più numerose, cavillose e complesse, spesso frutto di pressioni lobbistiche più che di esigenze reali della collettività. Norme che si giustificano solo in virtù di altre norme, in una spirale riproduttiva in cui il diritto cessa di essere uno strumento per far vivere meglio gli individui e diventa un oppressore autocratico.

In sostanza, si tratta di un libro di notevole impatto, denso di suggestioni magari provocatorie e discutibili però anticonformiste e utili alla riflessione, di scorrevole lettura (è la traduzione in italiano di un volume frutto di una serie di conferenze che l’autore tenne nel 2012 presso un canale radiofonico della Bbc) ma dotato di rigore metodologico e precisione nei contenuti. Un’occasione preziosa per provare a mettere in discussone molte certezze.