A Matteo Renzi non mancano certo il coraggio e la disinvoltura per esprimere le proprie idee. Si tratta, come è già stato osservato, di un nuovo modo di comunicare; ma forse è “nuovo” solo qui da noi, dove alla chiarezza delle parole da parte dei politici non siamo troppo abituati. Si sa che la chiarezza in politica è un’arma a doppio taglio: piace molto alla gente comune, che ama la favola di Andersen perché spezza il coro conformista sui bei vestiti dell’imperatore dicendo semplicemente “ma il re non ha niente addosso!”. Così ha detto Renzi di fronte a molti “bei vestiti” inesistenti di vecchie glorie del suo stesso partito, senza tralasciare arroganze e vanti di potenti lobby e organizzazioni. Tuttavia parlare chiaro presenta lo svantaggio di non poter più tornare indietro, senza perdere la faccia (per chi alla propria “faccia” ci tiene, almeno un po’). E ciò finisce per urtare e intimorire i tanti più o meno piccoli “imperatori” e feudatari del nostro Paese, che tutto accettano fuorché di vedere tagliati i propri privilegi.

È per questo che il premier raccoglie consenso in quella parte di Italia che non ne può più di aspettare riforme che non arrivano (da chi non trova lavoro a chi vorrebbe costruire un’impresa, ma trova sul suo cammino ogni sorta di ostacoli), mentre è osteggiato e atteso al varco da un’altra parte, politicamente trasversale, scettica sulla possibilità che le parole si traducano in fatti o, al contrario, timorosa proprio che ciò avvenga.

Renzi per primo sa che è questo il piano su cui si gioca la faccia, la realizzazione concreta delle promesse a livello italiano assai più che europeo. La sua credibilità dipende da quanto saprà fare nel portare a termine alcune riforme inderogabili. In primo luogo, com’è lui stesso a sostenere, uno dei problemi cruciali da affrontare e risolvere è modificare un apparato statale tanto elefantiaco quanto inefficiente. L’impresa è complessa e difficile perché non si tratta solo di razionalizzare, tagliare stipendi, licenziare dirigenti inamovibili (che di per sé è già un compito immane). Si tratta del fatto che i ceti dirigenti in Italia sono di scarsa qualità, molto più anziani e meno istruiti degli altri Paesi europei, come mostrano indagini internazionali. Ciò dipende in gran parte dai meccanismi con cui i dirigenti pubblici vengono selezionati, molto spesso sulla base di logiche clientelari, senza verifiche dei risultati raggiunti. 

Il taglio agli stipendi dei manager pubblici, esorbitanti rispetto ai corrispettivi stranieri, va nella direzione giusta e sicuramente raccoglie l’approvazione popolare e la forte ostilità dei ceti colpiti, come risulta chiaro dai lamenti e dalle polemiche di questi giorni. Il problema, però, non è solo quello di retribuzioni troppo spesso non giustificate da professionalità e responsabilità effettivamente ricoperte, ma della proliferazione indiscriminata di società locali (quotate o non quotate che siano) e di incarichi che, indifferenti ai conflitti di interesse, costituiscono spesso delle greppie per riciclare politici e per saziare l’avidità di manager che già ricoprono altri ruoli ben remunerati nella pubblica amministrazione, garantendosene la lealtà. È continuata nel tempo la capillare occupazione dello Stato da parte dei partiti, come ebbe a dire Enrico Berlinguer in un’intervista a Eugenio Scalfari (28 luglio 1981): “I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai Tv, alcuni grandi giornali”.

Si tratta, insomma, di rompere il circolo perverso che da decenni lega politica, sottogoverno locale e affari, che genera corruzione, selezionando dirigenti scarsamente o per nulla dotati di un orientamento all’interesse collettivo.

Allora il problema con cui confrontarsi finalmente è quello della selezione dei ceti dirigenti, che deve essere aggredito dalle fondamenta senza usare solo la demagogia di qualche sforbiciata (anche questa, peraltro, meritoria). Ma riuscirà Renzi a costringere la politica a risanare se stessa?