È consentito dire che l’eccesso di scandalizzati per come si è giunti alla crisi e sostituzione del governo Letta appare un bel po’ bizzarro? L’improvviso revival di fede parlamentarista temo faccia il paio con l’altrettanto periodico revival di antiparlamentarismo che anima la cultura degli intellettuali italiani. Per chi come il sottoscritto fa di mestiere lo storico sembra un ritorno alla polemica alle origini del nostro sistema parlamentare dopo l’Unità d’Italia, quando andava di moda stracciarsi le vesti perché le nostre istituzioni non seguivano l’allora mitico “modello inglese”. Poi, nel 1884, venne un irriverente giovane di talento, tale Gaetano Mosca, che scrisse un libro per ricordare che i sistemi politici non lavorano per modelli, ma per adattamento a realtà storiche.

Mi permetto di rivangare l’illustre precedente per applicare lo stesso ragionamento all’oggi. Per spiegare ai nipotini quel che succede, come vorrebbe fare Chiara Saraceno, basta procurarsi un buon libro di storia politica: come hanno già ricordato in diversi, le crisi di governo di origine extraparlamentare non sono in Italia una eccezione, ma una regola. Ci aggiungiamo che lo sono di fatto anche in molte altre democrazie costituzionali occidentali, dove peraltro anche quando avviene poi il mitico passaggio parlamentare si tratta di una semplice “registrazione” di quel che si è deciso altrove.

Certo si capisce che, oggi come ieri, il palcoscenico parlamentare è abbastanza ghiotto e quelli che non rinunciano per nulla al mondo a una “comparsata” sui media si dispiacciono che venga loro sottratta l’occasione di una performance teatrale.

Il fatto è che oggi, ormai, la politica non si tesse più in Parlamento, ammesso e non concesso che lo si sia fatto in un passato non troppo arcaico. In realtà leggi, decisioni, interventi di un qualche peso vengono decisi in altri luoghi: al governo, nelle sedi che sono investite di qualche potere economico, sociale o lobbistico che sia, nelle strutture organizzate con peso sufficiente per influenzare l’opinione pubblica. Una volta a contrastarle non c’era il Parlamento, c’erano dei partiti, che erano i luoghi in cui era possibile esercitare una certa dialettica sociale e una certa competizione per la circolazione delle élite.

La cosa curiosa è che Renzi ha rimesso parzialmente in piedi questa dialettica, anche se non può risuscitare, perché è fuori tempo, il vecchio partito sociale di massa. Dopo la crisi del populismo berlusconiano avevamo avuto dei tentativi di governo degli “ottimati” (tecnocrati sarebbe troppo dire, specie per un bel po’ di ministri). Il presidente della Repubblica era stato costretto, credo senza sua personale soddisfazione, a tentare di governare questo passaggio in mancanza di alternative. A me non sembra che quegli esperimenti abbiano rivelato la presenza delle energie necessarie a esercitare una reale leadership sulla grave crisi in cui versa il Paese.

Quel Parlamento poi di cui oggi si lamenta l’esclusione non è che abbia rivelato grandi doti di autorevolezza: basti ricordare la pessima figura fatta nella delicata circostanza dell’elezione del capo dello Stato, ma è solo l’episodio più macroscopico.

Renzi ha oggettivamente sparigliato le carte. Non è il prodotto della coltivazione in vitro da parte di questa o quella nomenclatura; ha dato uno scossone generazionale a un Paese sempre più per vecchi o allievi dei vecchi; ha mostrato che al populismo distruttivo si può rispondere con un populismo almeno potenzialmente creativo.

È sufficiente per dire che sia arrivato il messia che ci guiderà alla salvezza? Certo che no, ma è abbastanza per dire che potrebbe esserci anche la speranza di giocare a qualcosa di nuovo. Se ci riesce, si vedrà, e non è scontato. Con due test elettorali difficili davanti (europee e turno di amministrative a maggio) è seduto su un barile di dinamite. Innanzitutto per il suo partito, che non si sa se reggerebbe la mancanza di un buon risultato, ma soprattutto per i partiti e partitini della sua coalizione. Ncd, se esce dimensionata sotto una certa soglia, sarà costretta a fare fuochi d’artificio per darsi una credibilità, ma peggio faranno i partitini che rischiano di vedersi codificate dalle urne percentuali da insignificanza politica.

Questo è il vero nodo della situazione su cui gli intellettuali dovrebbero riflettere cercando di far qualcosa, se sono capaci, per non lasciar andare al diavolo il loro Paese. Sono del tutto sterili i rimpianti per il parlamentarismo tradito e lo stracciarsi le vesti per il presunto tradimento della Costituzione (che, ridiamoci sopra, non prevede l'incoronazione dei governi dalle urne, ma dal Parlamento – quell’altra cosa la sosteneva Berlusconi…).