L'Albania a un anno dal centenario. L'indipendenza dello Stato albanese fu proclamata a Vlora il 28 novembre 1912. A un anno dal suo celebratissimo centenario, l'Albania non ha certo risolto i suoi problemi, ma non è lo stesso Paese. Se in generale l'occhio dello straniero è più sensibile al cambiamento, è ancor più vero che i numerosi italiani in Albania tendono a sentirsi a bordo di un treno in corsa – sarà l'età media dell'Italia (la più alta del già vecchio continente) o il fatto che in patria il susseguirsi delle stagioni invernali è scandito dai libri di Bruno Vespa. Al contrario, similmente a quanto sostenuto da tutti i residenti del mondo, per la maggior parte degli albanesi il loro Paese «è sempre uguale e non cambierà mai». Rimanendo equidistanti da queste due prospettive diversamente parziali, è evidente come le novità susseguitesi nel corso dell'ultimo anno abbiano lasciato un segno sul giovane volto dell'Albania – un viso dai tratti incerti, felicemente rischiarati dal sole dell'avvenire.

Il cambiamento è stato innanzitutto politico. Come avviene in tutte le democrazie europee, esso è partito dal basso (gli elettori) ed è proseguito dall'alto (gli eletti) senza che queste due spinte entrassero in conflitto tra loro. La prima novità è dunque la normalità del gioco dell'alternanza: un dato affatto scontato alla vigilia delle elezioni dello scorso giugno, dominate dal ricordo delle amministrative del 2011, quando il sindaco della capitale venne deciso al termine di un riconteggio che richiese l'intervento delle forze diplomatiche americane. In questi primi mesi di governo, Edi Rama è stato molto abile nell'accentuare la percezione della svolta, sia sul piano formale che su quello sostanziale. In quanto totalmente sconosciuti nel contesto albanese – una realtà in cui il lessico della politica è quotidianamente esacerbato ed il lavoro dei governi è circondato dalla diffidenza e dalla disillusione – piccole accortezze di forma come il saluto all'avversario sconfitto in perfetto stile anglosassone o la rimozione dei cancelli aguzzi che circondavano il palazzo del governo sono apparsi come gesti rivoluzionari. D'altro canto, anche sul piano sostanziale le prime scelte governative hanno registrato un salto qualitativo: l'immediata abolizione della legge sull'importazione dei rifiuti e il no agli Stati Uniti sullo smaltimento delle armi chimiche siriane su suolo albanese – decisioni complesse sulle cui implicazioni si può discutere a lungo – sembrano essere figlie, e certamente in questo modo sono state scaltramente presentate, di una logica politica che per la prima volta travalica le categorie della forza e della convenienza immediata, criteri che hanno sempre guidato lo spietato pragmatismo dei governi Berisha. In questo senso, poco importa che queste decisioni siano state prese anche per lucrare consenso interno – secondo gli albanesi più maliziosi, dietro alle intuizioni di Rama vi sarebbe l'esperienza di Tony Blair, l'ex leader europeo che il primo ministro ha espressamente voluto come consigliere – né è rilevante sapere in che misura il nuovo governo sia animato da genuine priorità ambientaliste: il cambiamento politico, è innegabile, vi è stato.

Al dato politico è poi legato un ben più importante fattore di novità, relativo alla diversa percezione che i futuri cittadini albanesi avranno del loro ruolo nella vita pubblica del Paese: gli albanesi nati a inizio millennio cresceranno in un'Albania dove il voto democraticamente espresso sarà l'unico mezzo per ottenere il ricambio della classe politica; per quei ragazzi sarà normale pensare al proprio Paese come a uno Stato sovrano, persino davanti ad alleati della statura degli Stati Uniti. Al di là delle legittime posizioni sulla vicenda armi chimiche – gli americani avevano ben argomentato la loro richiesta, condendola di offerte allettanti sul piano economico ed ambientale – è evidente come i giovani cittadini albanesi stiano prendendo coscienza del loro peso politico nella creazione dell'Albania di domani: un dato reso evidente dalla natura civica e apartitica delle manifestazioni spontanee cui ragazzi giovanissimi hanno dato vita nelle prime due settimane del novembre scorso. Accusati, da un lato, di essere giovani disinformati ed esposti, dall'altro, alla facile strumentalizzazione mediatica da parte di un'opposizione in cerca di un elettorato perduto, questi inesperti apprendisti della mobilitazione politica si sono invece distinti per tenacia e capacità. Sarebbe certamente scorretto attribuire la retromarcia del governo unicamente alla loro azione, ma a mio giudizio è altrettanto ingiusto l'atteggiamento di tanti albanesi adulti e disincantati i quali, essendo vissuti in un altro mondo, non riescono a capire il valore delle giovani forze di cui oggi dispone il loro Paese.

Ai confini del fermento balcanico, come sempre, l'Europa osserva. Similmente a quanto avvenuto durante il centenario, anche quest'anno le celebrazioni per l'anniversario dell'indipendenza sono state caricate di attese europeiste: lo scorso ottobre la Commissione ha ribadito al Consiglio la propria raccomandazione circa la concessione all'Albania dello status di Paese candidato, una posizione fatta propria anche da una Risoluzione votata dal Parlamento europeo. Spetta ora ai governi degli Stati membri riuniti nel Consiglio europeo del prossimo 20 Dicembre decidere – all'unanimità – sull'opportunità di un simile avanzamento. Sebbene per ben due volte il Consiglio abbia gelato gli entusiasmi generati dalla Commissione, e sebbene il raggiungimento di un consenso unanime sia complicato dalle reticenze di diversi Paesi nord-europei, per la terza volta i media albanesi si sono abbandonati volentieri all'ottimismo, dando vita ad una sorta di festoso count-down. Vedremo se l'onda lunga del cambiamento albanese avrà la forza di superare quest'ulteriore scoglio. Per il momento, l'unica conclusione che possiamo trarre è che la fame d'Europa dei Paesi che ancora non ne fanno parte – Paesi per i quali Europa è ancora sinonimo di cambiamento – ha tanto da insegnare ai giovani euroscettici nati e cresciuti nei Paesi fondatori.