Il tempo delle riforme? Se dovessimo utilizzare i dati conclusivi per sintetizzare le elezioni generali in Cile, il panorama sarebbe questo: con un’affluenza di poco al di sopra del 50%, Michelle Bachelet della coalizione Nueva Mayoria (che ha ripreso l’eredità di quella Concertación che dalla caduta del regime di Pinochet ha mantenuto la presidenza fino al 2010) si è fermata al 46,68%, Evelyn Mathei, candidata dell’Alianza (coalizione di un centro-destra che cerca di affrancarsi dal suo passato pinochetista), ha ottenuto il 25,01%, mentre il terzo e quarto posto sono stati occupati rispettivamente da Marco Enríquez-Oninami (ex socialista e critico delle pretendenti amministrazioni della Concertación) e Franco Parisi (indipendente, vicino alla destra liberista), che hanno di poco superato il 10%. Da questo punto di vista la tornata elettorale sembrerebbe un sonoro successo per Bachelet che, vincendo in tutte le Regioni, ha raccolto il doppio delle preferenze rispetto alla sua diretta avversaria Mathei. Una vittoria, questa, conseguita anche dalla Nueva Mayoria, che infatti raggiunge la maggioranza in entrambi i rami del Parlamento. I numeri, però, non sono chiari come sembrano.

Non v’è dubbio, infatti, che queste elezioni abbiano significato un netto rigetto della presidenza Piñeira, visto il basso consenso raccolto da Mathei, che aveva occupato il ministero del Lavoro fino a pochi mesi fa. Cionodimeno, a differenza di quanto alcuni si aspettavano e altri speravano, Bachelet non ha vinto al primo turno. Ha vinto, in sostanza, la candidata che, pur venendo da una coalizione che per quattro anni è stata all’opposizione, ha occupato il centro nevralgico della campagna elettorale. Bachelet è stata capace di generare dibattito, costringendo gli altri a rincorrerla tanto all’interno della propria coalizione (soprattutto durante le primarie) quanto all’esterno. Questo atteggiamento, accompagnato da alcune dichiarazioni un po’ azzardate, ha fatto maturare l’idea che Michelle potesse vincere al primo turno. Una speranza che, una volta aperte le urne, è rimasta tale. Parte dello storico elettorato della Concertación è andato, questa volta come nelle precedenti elezioni del 2010, a Oninami, spina piantata nel fianco sinistro della candidata Bachelet. Il mancato raggiungimento del 50%, accompagnato dal relativo successo di Oninami, rivela, in altri termini, l’esistenza di un malcontento più o meno diffuso nei confronti della Nueva Mayoria. Un malcontento che in parte si è mostrato con il numero di voti raccolti da Oninami e in parte si è fatto "voto di protesta", articolato nelle sue forme e nelle sue geometrie variabili.

Ed è questo il secondo aspetto che emerge da queste elezioni: la declinazione del voto di protesta. Alcuni osservatori hanno puntato il dito sull’altissimo tasso di astensionismo: più della metà degli aventi diritto non si è recato alle urne. Un dato che, però, va messo in relazione con l’abolizione del voto obbligatorio. Le elezioni che si sono appena tenute, infatti, sono state le prime a suffragio volontario. Senza ombra di dubbio, insomma, il voto di protesta si è espresso attraverso  l’astensione. Ma non solo. Vi è, infatti, ancora un’altra  maniera in cui può essere interpretata la protesta: sul 10% all’incirca delle schede è apparsa la sigla «AC» che sta per Asamblea Constituyente. La sigla manifestava la necessità di un cambiamento sostanziale nella politica cilena, un cambiamento mediato dall’elezione di un’Assemblea Costituente. Tale protesta, nata sui social network, ha ottenuto riscontri importanti anche in alcuni candidati presidenziali.

Il Cile che si è svegliato il lunedì mattina non è poi così differente da quello che si era addormentato la sera precedente. Un Paese che per più di vent’anni ha costruito il suo successo intorno al connubio fideistico di crescita economica e governabilità. Ora è il tempo della redistribuzione e dell’inclusione politica, prima che sociale. A chiederlo non sono le classi sociali emarginate quanto piuttosto la classe media che in questi anni ha goduto dei benefici di un Paese che si è sviluppato a passi da gigante. Chiedono una sanità pubblica più efficiente, un’istruzione gratuita e di migliore qualità e, soprattutto, l’abrogazione della legge elettorale binomiale al fine di facilitare l’accesso al Parlamento anche di quei partiti che non appartengono alle grandi alleanze. Michelle Bachelet, che dovrebbe essere eletta il prossimo mese (a meno di un terremoto politico), è sostenuta da un’alleanza consolidata e avrà una maggioranza solida in Parlamento, che le permetterà addirittura di approvare leggi che necessitano di quorum qualificato senza dover ricorrere al sostegno di altre forze politiche. I mezzi ci sono, i buoni auspici pure: arriverà il tempo delle riforme?