Si parla molto, e giustamente, di libertà della informazione. Ma non è che così facendo finiamo per ignorare  il vero problema, ossia la qualità dell’informazione? Un dubbio che viene in mente visitando l’Aquila alla vigilia dell’inverno e partecipando a un incontro su “Terremoto e informazione”. Perché certo dall’Aquila di immagini e parole ne sono arrivate moltissime. Mentre una coltre di silenzio è rapidamente scesa su altri dammi (come il recentissimo e già rimosso disastro idrogeologico nel messinese) agli aquilani è capitato di sentirsi persino troppo esposti: si pensi all’obbrobrio dei microfoni infilati già nelle prime ore nelle auto dove dormivano i sopravvissuti o alla recente, infinita telenovela (un vero e proprio serial show) della consegna delle case.

Però basta un breve giro nei campi e qualche conversazione per capire quanto, invece, la realtà di quell’evento  e delle sue conseguenze sfugga ancora e sempre più alla nostra comunicazione. Tante immagini e parole ma poche notizie e, usiamo pure con cautela una parola equivocabile, poca verità. Come dice un proverbio catalano, dopo un’alluvione la prima cosa che manca è l’acqua potabile. L’Aquila è un caso esemplare di quanto la ridondanza riduca, in realtà, l’informazione reale.
È un problema di libertà, certo. L’Aquila è anche il palcoscenico di uno scontro politico, almeno sul piano simbolico, c’è un leader che ha deciso di giocare qui la decisiva partita della sua immagine e credibilità. Ormai ogni foto o notizia di sollievo o di sofferenza gioca un ruolo immediatamente politico, e strumentalizzabile in quanto tale. Il controllo dell’informazione assume un ruolo capitale – e di fatto dell’Aquila sappiamo oggi pochissimo. Ma è anche un problema di qualità, ovvero di linguaggi e capacità di racconto. Perché – ecco il problema – come rappresentare quello che accade oggi nel luogo della tragedia? La cupa malinconia dei campi mezzi sgomberati dove ogni elemento di condivisione collettiva appare cancellato; l’incertezza di chi deve scegliere quale sistemazione accettare e quanta provvisorietà prevedere; l’ansia nuova nella quale si intrecciano la persistenza della perdita e del lutto con la difficoltà di esistenze che devono ristrutturarsi? I giornali non sanno (più) raccontare tutto questo. E le troupe televisive sono mobilitabili solo per l’emergenza, pronte a essere adoperate per rafforzare stereotipi e verità contrapposte: probabilmente ripartiranno a Natale, alcune (molte) per festeggiare in qualche new town o new home la serenità ritrovata, altre (poche, pochissime) a cercare l’ultima tenda in grado di documentare i limiti della ricostruzione. Ma ecco, come raccontare l’altro? La minimale scomodità quotidiana, l’irremovibilità di un’angoscia che sembra scesa come un enorme telo impermeabile al posto di quelli ormai rimossi, le piccole esperienze di resistenza e ricostruzione dal basso (alcune, molto interessanti, a partire dai libri e la cultura)?
Sarebbe l’ora del citizen journalism e qualcosa dall’Aquila arriva (su siti come fromzero.tv o arcoiris.tv ma anche nel lavoro di un giovane bravissimo come Francesco Paolucci – si veda su youtube il suo diario di un “terremutato” e il ciclo “riprendiamoci”). Se sia solo il residuo di una qualità in via di estinzione o l’inizio di una nuova era dell’informazione lo sapremo nel tempo ma può essere utile cominciare a scrutare il futuro dall’Aquila.