La Turchia verso la normalizzazione? Dopo la parentesi tumultuosa di Gezi, la Turchia ha ripreso la sua marcia verso il compimento della democrazia. Lunedì 30 settembre, il giorno prima della riapertura della Grande assemblea nazionale, il primo ministro Recep Tayyip Erdoğan ha illustrato in diretta televisiva i caratteri salienti dell’attesissimo “pacchetto di democratizzazione”: una serie di misure volte a restituire diritti e dignità alle minoranze etniche e religiose, a liberare l’attività politica dalle restrizioni eccessive del passato, ad avvicinarsi agli standard democratici dell’Unione europea. In totale ventuno provvedimenti, prontamente sottoposti all’esame parlamentare; passi in avanti decisi, ma non decisivi: che comunque rimettono in moto il processo riformista avviato nel 2002 — con l’avvento al potere del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp), democratico-conservatore d'ispirazione islamica — e arenatosi dopo il trionfo nelle elezioni politiche del 2011. L’accoglienza è stata in effetti tiepida, gli scontenti — per motivi vari, a volta opposti — più numerosi dei pienamente soddisfatti.

Il premier di Ankara ha rivendicato la portata storica di questa iniziativa — “La Turchia sta progredendo irreversibilmente verso la democrazia” — che smantella alcuni pilastri del regime autoritario kemalista: il frutto più maturo di una “rivoluzione silenziosa” in corso da undici anni e che proseguirà con ulteriori provvedimenti già preannunciati; sarebbe un errore mastodontico, quindi, percepire il pacchetto come una risposta — magari elettoralistica: in Turchia si vota a marzo per le amministrative e a inizio estate per le presidenziali — agli eventi di Gezi: tutto era già programmato. Gli interventi più incisivi riguardano la minoranza curda e sono parte integrante dei negoziati di pacificazione col Pkk: libero insegnamento in curdo (e non solo del curdo come lingua straniera) nelle scuole private; libero ricorso al curdo e alle lingue di altre minoranze per i partiti politici; libero uso delle lettere — contenute nell’alfabeto curdo, ma non in quello turco – Q, W e Z; ripristino dei toponimi curdi soggetti in passato a “turchizzazione”; abolizione dell’inno/giuramento che esaltava la turchicità imposto agli studenti e del divieto di indossare il foulard islamico — il  türban — alle funzionarie pubbliche. Pacchetto di democratizzazione, pacchetto di normalizzazione.

Inoltre, vengono introdotti nel codice penale i “crimini d’odio” (hate crimes): inasprendo pesantemente le pene per chi li commette in nome di ideologie razziste e discriminatorie, nel contempo depenalizzando — non più carcere, solo ammende — insulti e offese a gruppi etnici e religiosi; vengono rafforzate le garanzie per il libero esercizio dei culti, restituite le terre espropriate al monastero siro-ortodosso di Mor Gabriel, avanzate proposte per una migliore integrazione del popolo gitano. Restano però inaspettatamente fuori dal pacchetto — con conseguenti reazioni polemiche — norme specifiche per la minoranza alevi e la riapertura del seminario teologico greco-ortodosso sull’isola di Heybeliada, chiuso dopo il colpo di stato militare del 1971; nel primo caso è apparentemente allo studio un pacchetto mirato (punti cruciali: il riconoscimento dei luoghi di culto e la formazione dei sacerdoti), nel secondo le autorità turche pretendono reciprocità da parte della Grecia a favore della minoranza musulmana (scuole, identità etnica, nomina degli imam): i rum di Istanbul sono andati su tutte le furie!

Ulteriore e importantissima proposta, la decisione di intervenire sulla legge elettorale: un proporzionale di collegio, con liste bloccate e uno sbarramento del 10% introdotto dopo il golpe del 1980 per penalizzare i partiti pro-curdi (il partito Bdp è attualmente attestato sul 6-7%); tre le opzioni avanzate da Erdoğan: status quo, sbarramento al 5% e collegi limitati a 5 eletti ognuno, uninominale senza specificare se a uno o due turni. In più, viene rivista la legge che determina i finanziamenti pubblici ai partiti: godranno dei fondi a disposizione coloro che supereranno il 3%, mentre attualmente il limite è del 7%. I curdi hanno protestato per le mancate riforme del duro codice anti-terrorismo, che non distingue sufficientemente tra azioni violente e attivismo politico; i partiti kemalista (Chp) e nazionalista (Mhp) per la fine del turco-centrismo e per le misure che a loro avviso minano l’identità nazionale (o la natura laica dello Stato). L'Akp invece si rilancia come forza democratizzatrice, orientata al futuro: ma pause prolungate ed errori non saranno più tollerati.