Guido Barilla ha pronunciato una frase dalle tonalità certo omofobe, ma più ancora o più semplicemente molto tradizionaliste: “non farò mai uno spot con una famiglia omosessuale”. Nel farlo, non essendo uno stupido, non pensava certo di agitare un vessillo ideologico, ma era convinto più che altro di rivolgersi al suo target pubblicitario, ossia la famiglia italiana tradizionale con i suoi valori e con il suo immaginario condiviso.

Le voci che prontamente si sono levate da parte di suoi concorrenti industriali, con conseguenti aperture alle famiglie gay e lesbiche, hanno l’evidente scopo di occupare uno spazio di nicchia, prezioso, ma poco numeroso, che le parole (e gli spot) di Barilla hanno lasciato scoperto e magari di rosicchiare anche quello di famiglie etero, ma progressiste e critiche verso gli stereotipi dominanti in Italia.

Qui sta il punto che vorrei sottolineare. Gli imprenditori fanno il loro mestiere, vendere il loro prodotto. Ma se si sceglie di fare uno spot anticonformista, con due maschi che si baciano, oppure con immagini scettiche e ironiche rispetto alla religione (come una marca di caffè ha fatto) è perché ci si immagina di venire poi premiati nelle vendite di quel particolare prodotto. Non certo di cambiare il mondo. Il passo falso di Barilla, sul piano commerciale, potrebbe essere stato quello di non considerare che con le sue parole toccava un tasto sensibile; e che all’estero – in Europa ma anche negli Stati Uniti, dove il marchio è molto diffuso – non solo la famiglia ha subìto  trasformazioni strutturali molto più radicali che in Italia (famiglie omosessuali, monogenitoriali, convivenze ecc.), ma la cultura che la riguarda è enormemente più avanzata della nostra. Bisognerebbe chiedersi come mai da noi abbondano spot rivelatori di un immaginario sulla famiglia e in particolare sul ruolo della donna da anni Cinquanta (tutta dedita al lavoro domestico, alla cura dei figli, premurosa e felice nell’accudire il marito che si guarda bene dal toccare pentole e fornelli). La ragione sta nella realtà di una cultura diffusa non solo in ritardo rispetto a quella della maggior parte dei Paesi europei, ma che ha subìto negli ultimi vent’anni addirittura un arretramento, in barba – si potrebbe dire – perfino ai cambiamenti oggettivi della famiglia italiana che, seppur con lentezza, tende ad avvicinarsi ai modelli degli altri Paesi.

Le indagini internazionali (Evs e Ess, in particolare) a questo proposito parlano chiaro. Per quanto riguarda orientamenti illiberali nei confronti dell’omosessualità, l’Italia presenta valori medi nazionali assai più elevati rispetto agli altri Paesi, di mancato riconoscimento del lavoro delle donne e di apprezzamento, in generale, di un loro ruolo tradizionale e subordinato nella società. Certo, gli stereotipi pubblicitari tradizionalisti sulla donna e sulla famiglia italiana rispecchiano questo immaginario desueto, ma nessuno ha mai dimostrato che siano in grado di influenzare significativamente i comportamenti. Ben più importanti nel definire orientamenti culturali e comportamenti nel campo assai delicato dei rapporti di genere e dei ruoli sessuali sono la famiglia e la scuola fin dalla prima infanzia, quando - a volte inconsapevolmente – si insegnano modelli diversificati per maschi e femmine, comprimendo attitudini e identità, generando forme di emarginazione e molte sofferenze. La politica soprattutto avrebbe il compito centrale nel rimuovere a monte le cause delle disuguaglianze in base al sesso.

Ma in Italia, oltre a dibattere sui rigatoni, potrà mai esserci una politica seria sui diritti civili?