Amman. La sala nella penombra inizia a riempirsi di veli e lunghi soprabiti. Su un lato. Barbe e visi sbarbati sull’altro. Del parlottare sommesso, in attesa che l’incontro inizi, riesco solo a intercettare la cantilena familiare dei dialetti siriani. Il posto è il seminterrato del Mataam al-hadiqa, “Ristorante del Giardino”, in faccia al ministero del Commercio, cinque minuti a piedi dal parlamento, quartiere al-Abdali.

Quando si accendono le luci ne conto un centinaio. La media d’età è quella di chi studia all’Università. Studiava. È appunto di questo che vogliono parlare. Ragazzi e ragazze dello Tsunami siriano, che in Giordania ha portato centinaia di migliaia di connazionali, molti fuggiti che la pentola della minestra stava sul fuoco, a precipizio. Nuove impellenti urgenze si sovrappongono alle tragedie appena viste con i propri occhi, o udite da chi le ha viste e si considera un sopravvissuto. Un tetto sulla testa l’elettricità i servizi le medicine il cibo: qualsiasi cosa indispensabile diventata un lusso. Ma qui, paradossalmente, si viene una volta la settimana per parlare d’altro: storia, architettura, economia, medicina, fisica, astronomia, letteratura. Questi giovani universitari si alternano al microfono per raccontare cosa stavano facendo quando lo Tsunami è piombato su di loro, su quali libri erano chini con l’evidenziatore in mano, che cosa stavano scoprendo degli universi di sapere nei quali erano entrati, vuoi per vocazione vuoi per esclusione. Lo scopo: incoraggiarsi reciprocamente a non mollare, anche se lo studio «è l’ultima delle cose cui pensare in un caos del genere». Ma loro no, rispondono al ritornello che non può essere l’ultima cosa: sanno che se il filo degli studi si spezza a vent’anni, chi lo riannoderà a trenta?

Seduto in un angolo del seminterrato li ascolto ragionare tra loro per oltre un’ora. Un’amica profuga con le due figliolette – «fuggita per salvarle» – è nell’organizzazione di una cosa così nata tutta dal basso, senza nessuna copertura né riconoscimento istituzionale; è lei che mi ha permesso di stare lì, «ma mi raccomando zitto». Però verso la fine non resisto e nel mio arabo appreso a Damasco tra Abu Rummane e il Mezze: «Ya shabab – ragazzi – che cosa possiamo fare per voi? Voi siete la generazione che dovrà ricostruire il Paese, quando verrà l’ora: che cosa possiamo fare perché alla Siria non manchi la generazione d’intellettuali di cui ha bisogno per rimettersi in piedi?». Le voci si accavallano, il microfono senza fili passa di mano in mano, facendo saltare la scaletta degli interventi: fate pressioni sul nostro governo; fate pressioni su questo governo; dateci delle borse di studio per completare il curriculum in Europa; no, qui in Giordania, dove i credits all’Università costano 80 dinari l’uno; a me mancano quattro credits e mi laureo, a me sei, io ero appena iscritto al primo anno; non fate assolutamente nulla, ce la caveremo da soli, completamente

Una settimana dopo, mentre sono sul punto di lasciare Amman, un gruppo di loro viene a trovarmi dove abito. Desideravo conoscerne qualcuno da vicino e l’amica profuga mi ha accontentato anche in questo. Facciamo cerchio intorno a una teiera che esala buon profumo di  naana  – menta – e a un cartoccio di  shamiyyat, le pasterelle di Damasco. Riprendono a raccontarsi in modo più intimo: Yusuf era all’ultimo anno di Giurisprudenza, mirava a quella laurea per entrare in polizia. Ha partecipato alle manifestazioni pacifiche dei giovani di Hama perché crede nella Primavera, anche se si sente un “uomo dell’ordine” e non ha paura di dirlo. Sognava di fare l’ufficiale di polizia ma ha creduto nella Primavera, cosa c’è di strano? Yaqub era al terzo anno di economia e commercio, interessato particolarmente al tema dello sviluppo sostenibile. Abitava nelle campagne a nord di Damasco, meta della fuga interna di migliaia di sfollati dalle zone calde del nord. Con altri si era preoccupato di dare ospitalità ai profughi, soprattutto donne e bambini e per questo ha subito due volte l’arresto – sospettato come fiancheggiatore – e ciò che di quei giorni non vuole raccontare, anche se non lo dimenticherà mai. Ali si era appena iscritto al biennio specialistico della facoltà di shari‘a, con l’intenzione di coltivare l’ambito del diritto di famiglia. Dopo aver adempiuto al suo obbligo militare aveva appena iniziato a lavorare come insegnante di religione alle scuole medie. Viene da Daraa, la città del sud dalla quale tutto ha avuto inizio, nel marzo del 2011. Suo padre, un professore di arabo in pensione, molto noto in città, è stato colpito da un cecchino sulla porta di casa. Soccorso da un vicino, musulmano come lui ma sciita, è morto dissanguato in ospedale. Fatima era iscritta al primo anno di farmacia. Figlia di un medico e di un’insegnante, esempio tipico di quella piccola borghesia sunnita cresciuta all’ombra del regime, senza ambizione alcuna, fuori da quella di costruire il proprio angolo di futuro: «La religione non centra. L’innesco della nostra primavera è stato politico ed economico, la povertà dilagante, a tutti i livelli». Non crede alla tesi della guerra civile e sente la mancanza di una nuova generazione d’intellettuali, perché quella vecchia si è troppo consumata nel galateo dell’omertà. Per lei la necessità più urgente è «l’unità tra noi, ma l’unità del cuore». E dall’Occidente che cosa? «Il contatto, la non-distanza, non tutto ridotto alla voce della diplomazia». Basil si divideva tra la facoltà di lettere arabe e il suq di Homs, dove trafficava insieme a un cristiano e a un alawita: ricorda la dolcezza di quei giorni, l’esempio memorabile lasciato da padre Paolo Dalloglio, che parla nebekino come uno di noi. Anche secondo lui lo scontro etnico-confessionale non è la chiave autentica di lettura: «Idha shakha nizam mat» - se un regime invecchia muore - «questo è ciò che sta accadendo». Leila era iscritta al dottorato in sufismo, dopo avere completato la laurea specialistica con una tesi sui contatti tra aristotelismo e il pensiero islamico. Ha partecipato alla  Primavera  sin dall’inizio, animando gruppi femminili sul campo e curando una pagina di dibattito su facebook.  Non ha dubbi: «La nostra rivolta ha un impulso esterno e uno interno. Esterno: le immagini delle altre Primavere arabe che scorrevano sui nostri schermi, e noi lì muti, come sprofondati nel silenzio. Interno: una generazione di giovani che ha rotto col galateo dell’omertà, cioè sapere che il regime è dispotico e corrotto e far finta di nulla». E gli altri fattori esterni? Il gioco degli interessi geopolitici al di sopra delle vostre teste, dei vostri piccoli sogni? Un gioco appunto, rispondono. La nostra sollevazione civile è la realtà, e il nostro sogno la verità più profonda di ciò che è soltanto emerso nel marzo 2011, ma covava da tempo. Leila è cosciente della propria debolezza come della propria forza: debole, perché quale peso può avere una laurea in filosofia e una specializzazione sulla mistica in un mondo dominato dalle conoscenze tecniche e mercantili? Forte, perché è consapevole che in un mondo come quello arabo – ma dove no? – il tessuto sociale ha disperato bisogno dell’irrorazione delle discipline umanistiche per sviluppare quel dialogo tra diversità che è essenziale alla pace sociale. Il corto circuito tra conoscenze tecniche e fondamentalismi, religiosi e laici, è provato. Anche per lei riannodare i fili spezzati della preparazione intellettuale e accademica è un passo essenziale per dare speranza al suo Paese.