Una calda estate italiana. Sia per le temperature canicolari, sia per un clima politico dominato dalla vicenda della condanna di Silvio Berlusconi, dalla sentenza da parte dalla Cassazione e dalle le polemiche che ne sono seguite: le speculazioni sulle sorti del governo, le controversie interne ai partiti, in particolare in seno al Pdl, al Pd, ma anche tra i membri del Movimento 5 Stelle.
Di colpo gli sbalorditivi attacchi razzisti subiti dal ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge da parte di rappresentanti della Repubblica, principalmente della Lega Nord, sono passati in secondo piano. Lo stupore e l’indignazione raddoppiano considerando la debole reazione a queste ingiurie d'altri tempi. Certo, il governo (a partire da Enrico Letta che ha avuto il coraggio di nominare ministro Cécile Kyenge), il Pd, alcuni media, alcuni intellettuali, l'hanno difesa e hanno condannato gli aggressori. Ma nel complesso la difesa è apparsa poca cosa e non ha mancato di meravigliare gli osservatori stranieri che hanno paragonato questi insulti alla crescita esponenziale dei cori razzisti negli stadi.
Tutto ciò, evidentemente, rilancia la spinosa questione del razzismo in Italia. Qui si confrontano due tesi di carattere antropologico quasi caricaturali. Quella minimalista considera gli italiani "brava gente", un popolo ormai vaccinato contro il razzismo, tollerante, accogliente, gentile; se di tanto in tanto gli italiani si lasciano trascinare a esprimere una retorica razzista non è che un gioco – per quanto esecrabile – e una sorta di velo che non può nascondere in fondo la loro generosità. L’interpretazione massimalista, al contrario, addita il forte razzismo italiano che si anniderebbe dietro la vernice di cortesia, amabilità e fraternità tutta cristiana verso l’umanità intera. Il dibattito si cristallizza nella storia nell’analisi della reazione degli italiani alle leggi antisemite del 1938 sotto il fascismo; e, oggi, a proposito del loro atteggiamento nei confronti degli immigrati. Come accade spesso in questi casi, la verità si trova senza dubbio a metà strada tra le due interpretazioni estreme.
E in proposito il caso di Cécile Kyenge resta emblematico, perché interpella il presente e l’avvenire dell’Italia. Il Paese ha conosciuto un forte shock migratorio in poco più di tre decenni, non si può negarlo. Ma a partire dal suo crollo demografico, l’immigrazione è una necessità e può essere un’opportunità. La speranza dell’immigrato è di tornare a casa, ma la realtà fa sì che egli il più delle volte si trovi costretto a restare là dov’è arrivato. Occorre dunque abituarsi a vedere chi è chiamato a rimanere stabilmente nel Bel Paese, a lavorarci e a viverci, ma anche a progredire nella gerarchia sociale. Oggi sportivi di alto livello e un ministro. Domani rettori, quadri, avvocati, medici, imprenditori, banchieri, vescovi, artisti affermati. Da qui la necessità di intraprendere il dibattito sullo ius soli e di risolverlo al più presto.