Per una Turchia europea. Con le manifestazioni iniziate il 27 maggio a Piazza Taksim per difendere il Parco Gezi dalla cementificazione decisa dal governo Erdogan, anche la Turchia è entrata nell’occhio del ciclone delle primavere arabe. Dietro la contestazione ecologica dei manifestanti è infatti emersa la lotta contro il regime pluriennale del leader del Partito della giustizia Erdogan che, dopo le prime riforme introdotte per soddisfare i criteri imposti dallo status di candidato all’adesione all’Unione europea, si è fermato e anzi ha fatto passi indietro sul piano del rispetto dei principi democratici e dei diritti dell’uomo.

La reazione dura del regime contro i manifestanti cela, come avviene sempre in questi casi, la sua debolezza, provocata da ragioni economiche e sociali (anche in Turchia è arrivata l’onda lunga della crisi finanziaria), geopolitiche (è sostanzialmente fallito il tentativo di Erdogan di assumere un ruolo egemone nei nuovi regimi arabi) e di sicurezza (la Turchia sta subendo i contraccolpi del conflitto interno alla Siria).

Sullo sfondo ci sono oltretutto tre appuntamenti elettorali che potrebbero cambiare notevolmente il panorama politico turco: in primo luogo le elezioni amministrative destinate secondo i sondaggi a togliere il potere dalle mani del Partito della giustizia per darlo nelle principali città o al partito socialdemocratico o a movimenti di destra conservatrice; poi le elezioni legislative in cui il governo Erdogan potrebbe perdere la maggioranza assoluta nonostante lo sbarramento del 10% che lascia fuori dalle aule parlamentari molti dei partiti politici o etnici (in particolare curdi) radicati sul territorio; infine le elezioni presidenziali.

Contrariamente alle rivolte nei Paesi arabi (in particolare Tunisia, Egitto, Libia e Siria) che hanno assunto un carattere rivoluzionario teso ad abbattere tutto il sistema totalitario al potere, i movimenti in Turchia non si sono dati quest’obiettivo ma – ci si passi l’espressione – hanno una natura riformista in un Paese fondamentalmente laico, con un livello relativamente elevato di stampa libera, un gran numero di partiti grandi e piccoli, una rete di sindacati inserita nel sindacalismo europeo e internazionale e infine una presenza massiccia di organizzazioni della società civile che hanno fatto sentire la loro voce contro la repressione ordinata da Erdogan.

Anche nel caso turco come nelle tendenze involutive dei Paesi arabi dopo le troppo brevi primavere, il silenzio e la passività europea hanno pesato nel salto indietro che il Paese rischia di fare dopo la stagione delle riforme. In questo caso tuttavia è opportuno tenere a mente l’aggravante del forte legame tra la Turchia e l'Europa. Questo Paese ha infatti firmato un patto di associazione (“l’accordo di Ankara”) esattamente cinquanta anni fa – il 12 settembre 1963 – che, come quello firmato con la Grecia, apriva la strada a una futura e piena adesione alle Comunità europee. Per la Grecia le porte dell’Europa comunitaria si sono aperte nel 1981, dopo la caduta del regime dei colonnelli, mentre la Turchia (pur membro del Consiglio d’Europa) ha esitato fino al 1987 a presentare domanda di adesione accolta solo nel 1999 con uno stentato avvio di negoziati iniziati nel 2005 e più volte congelati su decisione europea.

Nel frattempo, la Turchia è stata associata a pieno titolo nel gruppo dei Paesi “pre-in” sia attraverso aiuti di pre-adesione sia coinvolgendola nei dibattiti sull’avvenire dell’Europa intorno al progetto della sfortunata Costituzione europea. I due principali partiti turchi – il Partito della giustizia di Erdogan e quello socialdemocratico – sono membri attivi delle due maggiori famiglie politiche europee: i popolari europei, originariamente di ispirazione cristiana, e i socialisti e democratici. Le organizzazioni sindacali partecipano alle attività della Confederazione sindacale europea. Il mondo accademico è pienamente integrato nella dimensione europea in particolare attraverso i programmi comunitari come l’azione Jean Monnet. Last but not least, l’associazionismo europeista fa parte fin dalle origini del movimento europeo internazionale nato al Congresso dell’Aja nel 1948.

L’entusiasmo europeo della Turchia manifestato non solo dal potere politico ed economico ma anche dall’opinione pubblica è stato rapidamente raffreddato da crescenti segnali di insofferenza e di ostilità. L’Europa infatti paga fondamentalmente nei confronti della Turchia la presenza radicata nella cultura e nella politica di inconcepibili pregiudizi. In primo luogo un pregiudizio politico che designa il sistema turco come se esso fosse rimasto fermo agli anni che hanno preceduto la riforma di Ataturk e come se la Turchia fosse ancora un sultanato. Poi un pregiudizio nazionalista legato in particolare alle questioni cipriota, armena e curda che dimentica l'approvazione del Piano Annan da parte della comunità turco-cipriota, la complessità della vicenda armena e i passi in avanti compiuti per il riconoscimento dei diritti della minoranza curda. Quindi un pregiudizio religioso che dimentica l'apertura dell'Islam turco ai valori occidentali. Ancora un pregiudizio geografico che dimentica la storica collocazione della Turchia nella parte dell'Europa “dall'Atlantico agli Urali” e un pregiudizio storico che ignora la collocazione dell'impero ottomano nel quadro europeo. Infine un pregiudizio economico che non tiene conto del consolidato sistema di libero mercato e delle prospettive di sviluppo del Paese a livelli addirittura superiori a quelli di alcuni Paesi membri dell’Unione europea; e un pregiudizio identitario che sottostima il carattere aperto della società turca.

Nella prospettiva dei cambiamenti politici che potrebbero emergere dalle prossime scadenze elettorali, ma anche per aiutare la “Turchia europea”, le istituzioni dell’Unione dovrebbero avviare una vasta campagna per smantellare questi pregiudizi e accelerare il processo di inclusione del Paese nella dimensione comunitaria. Considerato l’interesse economico e strategico italiano, il nostro governo dovrebbe inserire questa questione fra le priorità della nostra presidenza del Consiglio dell’Unione nel secondo semestre 2014.