Nel passaggio che ha portato la Turchia dal regime imperiale a quello repubblicano, la proclamazione del principio di laicità è stata propagandata come il segno tangibile dell'allontanamento dall’assolutismo politico e dal fondamentalismo religioso per una piena adesione alla civiltà contemporanea. La laicità, però, non è mai stata un mero criterio regolatore dei rapporti tra Stato e religione, ma al contrario, insieme a un altro caposaldo kemalista, il nazionalismo, ha definito la nuova immagine identitaria del cittadino turco: un individuo moderno nella mentis ma soprattutto nella forma, in quanto spogliato di quegli emblemi, come il fez e il velo, che richiamavano a una civiltà “altra” rispetto a quella occidentale. La Turchia kemalista e post-kemalista non ha però vietato tutti i simboli religiosi, sulla base dell’assunto che la proclamazione del principio di laicità richiedeva la relegazione del fatto religioso alla sfera privata; ha limitato infatti soltanto l’uso di quelli contrari all’ideale nazionale del “nuovo turco”, come il velo, appunto, considerato l’emblema per antonomasia dell’essenza retrograda dell’Islam e, di conseguenza, anche del popolo turco. Parallelamente ha però sacralizzato sulla bandiera la mezzaluna, che non trasmette un’idea negativa né dei turchi né della loro religione.

L’obiettivo della “costruzione” dell’Homo kemalicus (turco, musulmano sunnita, ma non fondamentalista) è stato realizzato con metodi draconiani, mortificando, se non sopprimendo, le espressioni religiose (dei non musulmani), culturali (degli aleviti) e linguistiche (dei curdi) non assimilabili a tale modello identitario. Dal punto di vista politico, il rispetto dell’ortodossia è stato garantito prima da circa trent’anni di regime monopartitico e poi, con l’apertura al multipartitismo, da una solerte Corte costituzionale che, a partire dal 1962, ha sciolto più di venti formazioni politiche di orientamento profondamente diverso (comuniste, filo-curde, religiose ecc.), tutte però accomunate dal loro carattere "eterodosso". Per comprendere la gravità di tale prassi, basti considerare che nell’intera Europa occidentale, dalla fine della Seconda guerra mondiale, sono stati sciolti solo tre partiti.

L’avvento dell’Akp, lungi dal costituire un rischio di involuzione teocratica, ha avuto il merito di promuovere una revisione dei fondamenti ideologici della Repubblica al fine di realizzare quello che il kemalismo, pur nella spinta costante verso la civiltà contemporanea, aveva sempre impedito: l’instaurazione del pluralismo, senza il quale – come ha più volte affermato la Corte di Strasburgo – non può esistere democrazia. Anche le istanze europee hanno iniziato ad accettare l’idea che la laicità, così come è stata tradizionalmente concepita, tutela più il kemalismo che la democrazia e, di conseguenza, una diversa interpretazione di tale principio è necessaria per raggiungere gli standard delle democrazie contemporanee, affatto diversi da quelli perseguiti da Atatürk quasi un secolo fa.

Le difficoltà di tale processo sono però sempre più evidenti. Ad esempio, ne sono un indice l’apertura di numerose moschee e la liberalizzazione della pratica del velo, che avvengono non per una presunta trasformazione della Turchia da Stato laico a islamico, ma perché soltanto alcune determinate fasce della popolazione stanno esercitando sfere più ampie di libertà, mentre altre (come le minoranze religiose, etniche e linguistiche) non riescono ancora a godere dei frutti della revisione dei contenuti più rigidi del kemalismo.

Ritengo che questo sia dovuto in particolare alla debolezza dell’ideale democratico che ha caratterizzato la storia politica del Paese. Così come l’establishment kemalista prima di lui, anche Erdogan sta manifestando difficoltà nella gestione democratica del potere, la quale richiede sia una costruzione più ampia del consenso (giorno per giorno, non solo durante la vittoria alle elezioni, e ascoltando anche soggetti diversi dai propri elettori), sia la garanzia dell’esercizio delle libertà fondamentali, inclusa quella di espressione di opinioni di dissenso, critica e opposizione.