Lo scorso anno la Gemäldegalerie di Dresda ha festeggiato i 500 anni della Madonna Sistina di Raffaello, celebrandola in una mostra e donandole una nuova centralità e una nuova cornice, simile a quella che l'accoglieva negli anni Trenta del Novecento.

Nella splendida capitale della Sassonia la tela di Raffaello era giunta nel 1755, acquisita dal principe Augusto III per la sua ricca collezione. Da allora, aveva oscurato pian piano l'attenzione che prima i visitatori rivolgevano principalmente a un'altra opera proveniente dall'Italia, l'Adorazione dei pastori del Correggio (detta La notte), venduta da Francesco III d'Este 15 anni prima all'elettore sassone. Se già Vasari nelle sue Vite indica la tela di Raffaello, a pochi decenni dalla sua realizzazione, come opera straordinaria, sarà Winckelmann tra i primi a contemplarla nella nuova sede tedesca e, solo un anno dopo il suo arrivo, nei Pensieri sull'imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura (1755), la descriverà come figura colma di innocenza, ma dove risplende il raggio della divinità.

Alcune descrizioni della Madonna Sistina messe su carta da storici dell'arte, saggisti, scrittori e filosofi sono state oggetto di una ricerca sull'ékphrasis di recente pubblicata da Michele Cometa, interessato ad analizzare le varie sfumature della cultura visuale e il rapporto tra la dimensione della percezione tramite gli occhi e la sua resa attraverso le parole. Se l'ékphrasis – per l’appunto la descrizione di un'opera d'arte vera o fittizia, redatta con eleganza per enfatizzare l'esperienza estetica del lettore – è una forma che affonda le sue radici agli albori della letteratura (famosissima l'ékphrasis dello scudo di Achille nell'Iliade), Cometa sottolinea come “tutto il grande pensiero filosofico contemporaneo […] ha un quadro segreto che lo anima e ne articola la riflessione”, un'opera che diviene fondativa ed esemplicativa. L'Angelus novus di Klee, per esempio, non sarebbe tanto ricordato senza la cura e il ruolo che gli diede Walter Benjamin non solo nella propria riflessione, ma nella sua vita più profonda.

La Madonna Sistina, tuttavia, stupisce per la sua capacità di attirare gli sguardi di generazioni diverse, per entrare negli occhi e nella mente di figure come Goethe, Nietzsche, Freud, Ernst Bloch, ma è soprattutto per i russi che la tela di Raffaello diviene una sorta di ossessione, come già aveva ricordato Pier Cesare Bori in La Madonna di san Sisto di Raffaello. Studi sulla cultura russa (Il Mulino, 1990). In particolare, Dostoevskij ne fa uno specchio cui rivolgere i propri occhi e quelli dei propri personaggi. Se in Delitto e castigo la bellezza della Madonna si offre a un paragone con una sedicenne ingenua e sensuale, ne I demoni torna più volte, anche diventando incomprensibile e deludendo gli occhi dell'osservatore: “Essa non serve assolutamente a nulla”, “Ora nessuno ci trova più nulla, né i russi, né gli inglesi. Tutta questa gloria l'hanno gridata i vecchi”.

Sullo scorcio dell'Ottocento lo sguardo sulla Madonna Sistina sembra essersi distratto o spento, o meglio, è cambiato: sempre Dostoevskij racconta come, quasi improvvisamente, la tela avesse acquistato anche una sua materialità, una “cosalità” per cui si poteva avere l'istinto di afferrare le forbici e stracciarne il volto divino. Come sottolinea ancora Cometa, questo è un gesto da avanguardia novecentesca: da Schwitters a Dalì fino a Warhol la renderanno oggetto di collage, retinature, trasformazioni pop, come faranno allo stesso tempo migliaia di puzzle, tazze, piatti e francobolli, accanendosi soprattutto nei confronto dei due angioletti nella parte inferiore del quadro.

Ma nel Novecento la tela, la sua materialità, è stata anche oggetto di una disputa tra la Germania e la Russia: durante la Seconda guerra mondiale l'opera, come tante altre, venne messa al riparo dai bombardamenti (e nel caso di Dresda possiamo dire che le opere d'arte hanno avuto un destino migliore di quello degli abitanti) all'interno di grotte, dove venne trovata dai soldati sovietici che la portarono a Mosca. Qui, secondo il punto di vista russo, venne restaurata e ben conservata, come descrive anche un quadro realizzato da Mikhail Kornetsky, il Salvataggio della Madonna Sistina (1984). Secondo i tedeschi, invece, si trattò di una forma di punizione cui si pose fine nel 1955, dopo la morte di Stalin, quando la tela, con molte altre, venne restituita alla Ddr e alla Gemäldegalerie di Dresda.

A quell'anno risale anche una riflessione di Heidegger, contenuta nell'opera di storia dell'arte di Marielene Putscher, ancora considerata quella più completa sulla Madonna Sistina. Il filosofo tedesco, sottolineando di essere solo un “non addetto ai lavori”, vede in essa una soglia, e si sofferma sullo sguardo della Madonna e del bambino, in cui sembra essere radicata l'essenza dell'immagine.

Ma risale allo stesso anno anche un'altra ékphrasis, forse la più straordinaria di tutte, scritta da Vasilij Grossman dopo la visita al museo Pushkin, in cui le opere “tedesche” vennero esposte per novanta giorni prima della restituzione. L'immortalità di questo quadro sta, per Grossman, nel suo mostrare “l'umano nell'uomo”, quello che sopravvive a tutte le crocifissioni e a tutte le torture. L'unità di madre e figlio risiede nel gesto di separazione ineluttabile che intercorre tra loro, con la madre che non stringe a sé il bambino, ma quasi lo offre; gli occhi tristi e gravi dell’infante “vedono e conoscono il destino”, come quelli dei fanciulli che in momenti tragici, come le carestie e i pogrom, “stupiscono gli adulti per buonsenso, calma, rassegnazione”.

Per Grossman, improvvisamente, quella Madonna con bambino diviene l'icona di Treblinka, dove era giunto nel 1944 con l'Armata rossa, comprendendo le dinamiche spietate dell'arrivo delle vittime ignare dai convogli ferroviari e il loro immediato avvio alle camere a gas: “La riconosco dall'espressione che ha sul viso, negli occhi. Guardo suo figlio e riconosco anche lui dall'espressione adulta, strana. Così dovevano essere madri e figli quando scorgevano le pareti bianche delle camere a gas di Treblinka sullo sfondo verde scuro dei pini, così era la loro anima”.

Quegli sguardi che per secoli avevano interrogato spettatori di ogni sorta, dalle vecchiette ai principi, dai miliardari agli studenti, divengono così per Grossman l'immagine che non abbiamo, quella delle vittime incredule e rassegnate delle camere a gas. Come per l'Angelus novus, è lo sguardo che questa tela proietta verso l'osservatore a continuare a catturare e interrogare chi è disposto a sostenerlo.