4 ore, 9 minuti, 43 secondi. È il tempo trascorso il 15 aprile dallo sparo dello starter della maratona di Boston fino allo scoppio della prima bomba, collocata sulle tribune adiacenti l’arrivo. Mettere una bomba durante una maratona, farla esplodere dopo 4 ore e 9 minuti, in quella fascia oraria che segna il massimo afflusso di atleti di ogni età e Paese, significa voler segnare per sempre le loro vite, a prescindere dalle conseguenze immediate dell’atto. Comunque sia andata, quelle donne e quegli uomini non saranno più gli stessi e molti di loro non correranno più. Se mai è esistito un tempo simbolo, un record da eguagliare, questo è il tempo che da ora segnerà la corsa. Non solo a Boston o negli Stati Uniti, né per una facile solidarietà con le persone morte, ferite o rimaste scioccate in seguito all’attentato. Lo segnerà ovunque nel mondo in ogni maratona per anni a venire, perché correre è uno sport diverso. E, tra le corse, la maratona è la gara.

La corsa è lo sport dei poveri, ormai vincono quasi sempre africani, etiopi o keniani. Conosciamo un altro sport nel quale eccellono? Per praticare la corsa servono solo una maglietta, un paio di calzoncini e le scarpe. Non devi pagare una palestra, un istruttore, un campo. Non corri contro qualcuno, ma per qualcosa. Perché, anche se ti giochi la vittoria, in realtà non hai un avversario da battere, ma il tempo dentro la tua testa, il ritmo costante e i chilometri da lasciarti dietro. Puoi essere bello o brutto, alto, magro, basso: conta solo quanto hai dato in allenamento, perché solo quello ti sarà restituito in gara. Neanche un grammo di energia in più.

La maratona è lunga 42 km e 195 metri o, in miglia, 26.2, ma la gara vera comincia dopo il trentesimo chilometro. Tutti ci arrivano al trentesimo. Per chi non corre può sembrare strano, ma in realtà è relativamente facile. Dopo il trentesimo ti giochi la prestazione. La gara perfetta è quella che l’atleta finisce in progressione, quella sbagliata è quando perdi decine di secondi a ogni chilometro negli ultimi dodici.

Correre una maratona è sentirsi liberi e solidali. Ho visto sempre gli altri atleti incoraggiare chi si ferma: “Dai che mancano solo tre chilometri, forza che è finita!”. Perché ognuno che taglia il traguardo, un qualunque traguardo di una qualunque maratona, è come il soldato Filippide, che nel 490 a.C. corse ad Atene per avvertire la città della vittoria sui persiani a Maratona. Doveva fare presto, perché il nemico aveva ripreso il mare e si dirigeva al Pireo. La città, ignara della sorte dei soldati, avrebbe potuto arrendersi alla vista delle navi. Per questo Filippide corre per tutti i 42 chilometri che separano Maratona dal centro di Atene. E muore, dopo aver dato la notizia. Si muore in maratona, ancora oggi. Ogni atleta lo sa.

A Boston, nel recente passato, erano deceduti due maratoneti: nel 1996 un uomo di 62 anni e nel 2002 una ragazza di 28. Questo è la maratona. Leggendo i blog dedicati alla gara, scopri che la morte è un accadimento accettato a priori. Ci può stare. Lo sanno tutti.

Scopri anche, però, che nessuno avrebbe mai pensato che un giorno, all’arrivo, qualcuno potesse morire in seguito a un attentato. Il massimo che era accaduto, proprio ad Atene, durante le Olimpiadi vinte da Stefano Baldini nel 2004, era stato uno spettatore che aveva tentato di bloccare l’atleta brasiliano Vanderlei Da Lima quando era in testa. Poi ci sono solo ricordi leggendari, come quello di Abebe Bikila, che a Roma nel 1960 vinse correndo l’intera gara scalzo. Bikila si ripeté nel 1964 a Tokyo ed è uno dei pochi maratoneti ad aver vinto per due volte la distanza. Perché per vincere devi oltrepassare le capacità di soffrire al di là di ogni limite immaginabile, e lo fai una volta sola nella vita. Ti è andata bene. Basta così. Per questo non si è mai visto un atleta eccellere contemporaneamente nel mezzo fondo e nelle lunghe distanze.

Tranne uno, in tutta la storia dell’atletica. Si chiamava Emil Zátopek. Alle Olimpiadi di Helsinki del 1952 l’atleta cecoslovacco vinse i cinquemila, i diecimila e la maratona. Zátopek correva malissimo. Muoveva le braccia in modo disordinato (tutti sanno che si corre anche con le braccia), ciondolava la testa e una smorfia di dolore gli graffiava il viso. Perché correva costantemente oltre il proprio limite. Nel secondo dopoguerra corse e vinse in tutto il mondo, e a ogni vittoria di prestigio il governo comunista di Praga lo avanzava di grado, fino a colonnello. Poi venne il 1968, una primavera diversa e un’estate spezzata dai carri armati del Patto di Varsavia. Emil aveva già smesso di correre, allenava nell’esercito. Ma scese con i manifestanti in Piazza San Venceslao.

Ha quarantasei anni e tutti lo conoscono, e lo riconoscono. Gli chiedono di parlare alla folla ed Emil non può tirarsi indietro. Non è un oratore ma, dato che mancano poche settimane alle Olimpiadi di Città del Messico, dice che l’esercito dovrebbe rispettare la tregua olimpica. E, al limite, boicottare l’Unione Sovietica. Il giorno dopo Zátopek viene radiato dall’esercito e allontanato da Praga. Lo mandano a lavorare nelle miniere di uranio di Jáchymov. Poi lo richiamano in città, come spazzino. Quindi sterratore, nei dintorni della capitale. Infine, un posto nei sotterranei del Centro di documentazione sullo sport. Da solo, come quando si corre.

Perché correre è il più privato e solitario degli sport, ma può diventare anche il più sociale. A Boston, il 15 aprile 2013, erano in 23 mila. Come sarebbe bello, il prossimo anno, finire quella gara tutti con lo stesso tempo: 4 ore, 9 minuti, 43 secondi.