Quanto dura un silenzio di millesettecento anni? Sono secoli di vento, di piogge, di passi calpestati, di muschi, di notti solitarie e di terremoti. Ai piedi del Convento dei cappuccini, giusto alla destra dell'antico cimitero e proprio al confine del Collegio Murialdo che lambisce la Villa Pontificia, sembra quasi di poterla udire l'eco di questa domanda, rimbalzata tra le crepe delle pietre del grande anfiteatro. Tanta vita ha attraversato la storia di questo colle dallo sguardo lungo fino al mare di Torvaianica e che sprofonda, venti metri più in basso, nel sordo baratro di una buca ampia centotredici metri. 

Oggi l'arena sormonta tacita, nel suo invisibile dimenticatoio, la sommità del centro storico di Albano Laziale. Allora, invece, pompava emozioni nel cuore del mito di Albalonga. Quando sorse nella seconda metà del III secolo, svettava superba sui castra albana, l'accampamento della Legio secunda parthica: l'immenso circo a cielo aperto fu eretto per dar vita alle gioie e agli estri dei romani di provincia. In questa zona vulcanica e magica, di antichi riti e di genie guerriere, di laghi e di molte santità, terra di broccoli e di vigne coltivate sulle dolci pendici dei Castelli, le nonne rivelano leggende di quegli avi robusti e operosi, i fieri legionari che lastricarono parte della via Appia, e poi monumenti e cisternoni. I bambini albanensi sono cresciuti con i racconti fantastici di questo territorio, che nei misteriosi boschi di Nemi, abitati dai popoli arcani di cui James Frazer diede resoconto nel Ramo d'oro, ha serbato le navi di Diana, tramandando i riti della fertilità cari alla dea Artemide, e che ancora oggi nasconde centinaia di grotte tramutate in osterie, laddove un tempo si custodiva il vino. Eppure, persino i bambini ignorano che entro quel vasto buco nero, abbracciato dalle inferriate, giace alla luna uno dei più splendenti anfiteatri dell'antichità. Fino a pochi anni fa, la cancellata non c'era nemmeno e in quella piazza selvatica, riparata dagli oliveti, completamente sommersa dalla vegetazione, ci andavano con la fionda a cacciare lucertole.

Su quel cratere costruito dai soldati, qualche anno fa si affacciò anche Renzo Renzi. Da allora cominciò a cullare un sogno: farne uno stadio di spettacoli, com'era all'età di Settimio Severo. Ma dovette aspettare un giorno di fine maggio 2012 per farvi il suo ingresso. Merito di Rossana Claps, responsabile del Servizio cultura turismo e spettacolo, immediata nell'intuire la visione di Renzo, e degli altri combattenti di una giunta comunale entusiasta, pronta finalmente a rivendicare quella nobile radice latina. Un cancello cigolante girò davanti a una coltre d'erba, poi il fiato mozzato: entro la grande ellisse un carisma sepolto vibrava immutato. Millesettecento anni fa rivissuti in un colpo d'occhio virtuale, andando a colmare col cocciopesto le gradinate scolpite nel banco di roccia piperina, reinventando i trenta fornici a puntello di un piano sopra l'altro e del loggiato, ricostruendo in cima la terrazza sostruttiva, fin su, per un'altezza di oltre ventidue metri. Poi ecco quindici, forse sedicimila spettatori, che sbucano dai vomitoria, in attesa delle belve e dei gladiatori.

Dietro gli occhiali tondi e il ciuffo timido, Renzo si guarda intorno: invece di mettersi le mani nei capelli, se le mette sul cuore. Chiama Eugenio e Giulia, alfa e omega del nome generoso di Europa musica, che da dieci anni, con lui al centro, porta la musica laddove non c'è: nei quartieri di periferia come in provincia, allestendo eventi dove la qualità non è risparmiata, e dunque i rischi di produzione sono enormi. “Certe cose vanno fatte...non ci si guadagna, ma ci si emoziona”. Renzo dorme tre, quattro ore a notte. Per riempire moduli, compilare richieste, far quadrare i cerchi della kafkiana burocrazia predisposta innanzi a chi abbia il fegato di fare cultura in Italia. Soltanto due mesi per avverare il sogno. Il comune di Albano c'è, per tutto quello che può, da troppo tempo tenta di richiamare l'attenzione nazionale su questo patrimonio negletto. Ma poco o niente. Anno dopo anno l'anfiteatro muore. Renzo chiede soccorso ad alcuni sponsor, accorre il ministero dei Beni Culturali e accorre l'Arcus, l'organo interministeriale creato per sostenere le arti e che, vittima della mannaia della spending review, chiuderà i battenti nel 2013. Non bastano a coprire i costi. Un'intera area archeologica da mettere in sicurezza, un sofisticato palco da allestire, artisti importanti da pagare. “O si fa al meglio, o non si fa”.

All'altezza della sua storia, nasce così l'Anfiteatro Festival. Alle nove di una tiepida sera di luglio, Uto Ughi e i Filarmonici di Roma ribattezzano questo luogo alla musica. In prima fila, insieme alla sua gente, c'è il sindaco Nicola Marini, stupito e commosso come tutti, sa che questo sito ha le potenzialità per risorgere come una nuova Arena di Verona. Il suo appello è “per una cultura che non si mangia, ma alimenta”; cultura che in diciassette serate ha intanto nutrito duecentoquaranta artisti, centonovanta tecnici, cinquanta addetti all’accoglienza e alla produzione, oltre a sarte teatrali, scenografi, per un totale di seicento lavoratori “al servizio dell'antica liturgia del teatro”. E a sistemare le sedie, la squadra si allarga: le hanno accudite una a una anche Annachiara e Antonio, i figli di tredici e undici anni di Eugenio. Consapevoli pure loro di lasciare una gocciolina di sudore nella storia.

I conti di fine estate raccontano di ottomila persone che hanno staccato un biglietto a basso costo, perché gli show e la lirica incontrassero la misura dei cittadini. Portando nell'anfiteatro anche quella vecchina, che a bocca aperta mi ha detto: “Ho sempre abitato qui sopra, dietro la curva...ma è come se ci vivessi per la prima volta”.