Ci sono uomini la cui semplice presenza ci custodisce e accompagna nel difficile cammino verso l’incerto che ci sta davanti. Anche quando essa si è fatta remota e ha perso gli antichi vigori di un tempo, noi sappiamo che ci sono – e questo ci basta. Sappiamo che anche senza dire nulla, che anche il semplice gemito del loro desiderio di parola ci sostiene.

Il cardinal Martini è stato uno di questi uomini, perla rara in una stagione difficile. La luce di una memoria grata per la benedizione di averlo avuto tra noi viene offuscata, qua e là, da un senso di spaesamento.

Radicato sul perno della Scrittura, egli fu un cercatore incessante delle presenze della Parola di Dio; ovunque esse fossero, senza timore alcuno di trovarla, viva ed efficace, anche tra quelli che "non sono dei nostri"

Oggi ci sentiamo un po’ più soli, ma anche gravidi di un’eredità fattasi seme da raccogliere e far fruttificare. Sentimento, questo, che si allarga ben al di là della Chiesa e dei credenti, andando a toccare il nerbo della vita del nostro Paese. Perché così è stato del suo lungo ministero episcopale a Milano. Radicato sul perno della Scrittura, egli fu un cercatore incessante delle presenze della Parola di Dio; ovunque esse fossero, senza timore alcuno di trovarla, viva ed efficace, anche tra quelli che «non sono dei nostri». Martini non fu un avventuriero delle potenze della religione, non visse mai del sogno di una nuova cristianità culturale e politica; fu fino in fondo un uomo dell’istituzione della Chiesa, a servizio di una Parola la cui unica possibile custodia è quella dell’annuncio che la dissemina nel vasto e complesso terreno della contemporaneità. Egli sapeva bene che la Parola di Dio non ha bisogno di essere protetta e difesa, ma di passioni incessanti per l’umano che è di tutti – anche di Dio. Visse della fede in una Parola che va oltre ogni parola che la trascina nelle vicende opache e contorte del vivere, ma che si rallegra di qualsiasi parola che la faccia circolare tra gli uomini e le donne che abitano il mondo. Collaboratore della gioia di un Dio che desidera essere là dove noi siamo: senza privilegi per il divino e senza recinti di separazione per il sacro. Così ci insegnò a essere cristiani nel nostro tempo, l’unico possibile per la fede: senza rimpianto alcuno per ciò che non è più, impegnati in un infaticabile discernimento per cogliere le sorprendenti intuizioni dello Spirito. Ora che non c’è più, vivrà sereno l’intenzione che ha accompagnato il suo ministero: arrivare al punto in cui non avessimo più bisogno di lui. Non voleva né seguaci né ammiratori, ma uomini e donne indipendenti e liberi – ognuno, a suo modo, all’altezza della Parola di Dio.

Refrattario a ogni semplificazione, Martini rende difficile oggi trovare un’immagine che racchiuda la sua fede e il suo ministero. Forse si potrebbe azzardare quella della profezia, se con essa intendiamo la difficile costruzione del legame che fa fare corpo tra la trascendenza di Dio e l’effettività della storia in cui viviamo. Nello spazio della profezia bisogna comprendere a fondo le dinamiche del contemporaneo per poter dire una parola a rappresentanza di Dio; bisogna aver fiducia nell’unico tempo che ci è dato per poter formulare un giudizio di civiltà su di esso; bisogna essere compiutamente laici per lasciar emergere lo specifico della fede cristiana. La profezia chiede un esercizio continuo del cristianesimo nell’ora presente; e non gode dell’evidenza immediata della santità. Essa genera pensiero, lo esige come frutto maturo del suo spendersi per il Vangelo nel nostro mondo: non prende mai il posto dell’altro, ma è un’ingiunzione esigente che ci chiede di confessare qual è la nostra posizione nella vita. È così che si sta di fronte a Dio.

Ora che non c’è più, vivrà sereno l’intenzione che lo ha accompagnato: arrivare al punto in cui non avessimo più bisogno di lui. Non voleva né seguaci né ammiratori, ma uomini e donne indipendenti e liberi – ognuno, a suo modo, all’altezza della Parola di Dio

Se Martini fu profeta in questo senso, lo fu sempre come gesto di cura per l’istituzione della Chiesa e in suo favore. Egli comprese che, nella congiuntura attuale, solo la qualità spirituale dell’attuazione della Chiesa avrebbe potuto essere l’adeguata rappresentanza del Dio di Gesù nello spazio pubblico del vivere; e che solo così la Chiesa avrebbe potuto sostenere ed essere prossima al vissuto quotidiano dei credenti in ogni evenienza della vita, là dove si decide del Vangelo stesso di Gesù. Il suo ministero episcopale ha dato spessore e dignità all’istituzione, riconnettendo la trama della necessaria rappresentanza pubblica (del cristianesimo) con l’imprescindibile rappresentazione quotidiana dei vissuti (della fede) – merce rara in un tempo come il nostro, non solo nella Chiesa.

Caro cardinal Martini, per quelli della mia generazione, che ti accolsero poco più che adolescenti al tuo arrivo a Milano, sei stato una benedizione e un dono esigente. Non ci volle molto per sentire che era come se tu fossi qui proprio per noi; ben presto, però, ci accorgemmo anche che non volevi che piantassimo comode tende: ci chiedevi di essere dove pulsa la vita, con i suoi slanci luminosi e le sue pieghe più oscure, nel cuore delle cose di ogni giorno – a fare della fede la qualità civile del nostro abitare questo mondo, amato da te e da Dio.