La crisi non è uguale per tutti. Fatto forse ovvio, ma su cui è interessante esercitarsi con qualche riflessione.

È  evidente che la crisi non è uguale per le imprese. Molti dati ci dicono che almeno una su cinque, in Italia, continua ad andare benissimo, a crescere e a macinare profitti. Non è il settore che le distingue, ma certamente la proiezione internazionale (sta meglio chi esporta). Questo è normale durante le crisi; producono sempre uno «shake-out», rimescolano le carte. E da questi rimescolamenti possono venire effetti positivi: maggior spazio per chi è più bravo, che cresce di più anche perché occupa lo spazio di chi è in difficoltà. Perché gli effetti positivi – alla lunga – si determinino, servono però altre due condizioni; e di queste non siamo certi. La prima è che lascino il passo, chiudano, solo le imprese più deboli sotto il profilo industriale, e non, invece, imprese ottime ma colpite solo dalla mancanza di liquidità o di credito. La seconda è che, assieme alla fisiologica mortalità di imprese, vi sia una nuova natalità: nascano nuovi soggetti per occupare gli spazi di mercato che si aprono o individuando nuovi business.

La crisi non è uguale per le famiglie e i cittadini. Ciò che fa la differenza è in primo luogo la capacità di mantenere un lavoro, o almeno di essere coperti dalla cassa integrazione. Se viene meno un afflusso di reddito, e se non c’è patrimonio, ci può essere un pericolosissimo scivolamento verso condizioni di povertà estrema. In secondo luogo, pagare le tasse o meno.

Per chi le paga, il carico diviene più sensibile; per chi le evade, il premio implicito diventa più forte. Ancora, la questione dei patrimoni. I patrimoni degli italiani si sono ridotti un po’, per la perdita di valore delle attività finanziarie e per quella potenziale delle case. Ma i tassi di interesse sono ora assai alti. Chi ha patrimoni liquidi può guadagnare moltissimo, rendendo più acute disparità sociali. Difficile avere certezze, ma sono potenzialmente rimescolamenti sociali da seguire con attenzione.

Infine, non è uguale fra territori. A differenza del 2009, oggi sta male chi esporta meno, e deve fare conto solo un mercato interno asfittico. Stanno male i territori meno ricchi, perché hanno un gettito fiscale locale più modesto con cui compensare i forti tagli ai servizi pubblici; e perché i suoi cittadini hanno una capacità molto minore di acquistare servizi (ad esempio sanitari) sul mercato. I tagli lineari alla spesa, tanto osannati nel furore ideologico del nostro Paese, colpiscono in maniera asimmetrica. Questo può portare effetti negativi particolarmente concentrati nelle aree più deboli, dove c’è meno lavoro e meno gettito fiscale.

Giustissimo occuparsi della crisi nel suo insieme, per capire se quando e come potrà finire. Ma utile cominciare a ragionare sugli effetti differenziati che ha già provocato e sta provocando. Stanno crescendo ancora vecchie nuove disuguaglianze in Italia?