La Primavera e il deserto. Come altri Paesi della regione mediorientale, anche la Giordania è attraversata da numerose tensioni e proteste che ne minano da oltre un anno la stabilità politica. Nonostante alcuni interventi legislativi e i continui cambi di governo (ben quattro nel corso degli ultimi quattordici mesi), il regno giordano si trova a vivere una dura crisi economica e politica, stretto com'è tra esigenze interne di rinnovamento e necessità regionali di conservazione dello status quo. Sotto il primo profilo, come sottolineato dall'Ocse, Amman sta subendo sia i contraccolpi della crisi economica globale sia i riflessi della Primavera araba. Gli indicatori macroeconomici in merito sono piuttosto discordanti: infatti, se da un lato il Paese gode di una crescita costante del Pil (+2,5% per il 2011), ha un debito estero in calo (attorno ai 5 miliardi di dollari) e una discreta capacità di attrazione degli investimenti diretti esteri (soprattutto da Arabia Saudita e Qatar), dall'altro determinati indici preoccupano molto. Si tratta di quelli relativi all'elevata inflazione (6,4%), all'altissima disoccupazione (i dati del governo rilevano un 13%, ma Fmi e Banca mondiale ritengono più veritiere stime attorno al 30%) – in particolar modo quella giovanile (circa il 70%) –, alla diminuzione delle riserve internazionali (secondo la Banca centrale di Giordania, nel solo primo quadrimestre del 2012 sono diminuite di circa il 16,5%), all'aumento del deficit di bilancio (circa il 10% del Pil), all'incremento della soglia di povertà (attestatasi al 14%) e, infine, all'elevato numero di rifugiati e profughi (più del 7% della popolazione totale secondo l'Unhcr), provenienti da Cisgiordania, Iraq e Siria.

Non di meno, a incidere sullo stato dell’economia giordana e sugli umori della popolazione è il fattore energetico. La mancanza di materie prime (gas e acqua) costringe infatti la Giordania a importarle da Egitto e Israele: il 96% del fabbisogno energetico nazionale dipende dalle importazioni dai vicini Paesi dell’area e se la domanda di energia continuerà a crescere, secondo il dipartimento di statistica giordano, il consumo interno sarà più che raddoppiato entro il 2020. Se si considera che una delle cause principali delle proteste degli ultimi mesi è stato il forte incremento dei prezzi dell’energia (il prezzo dell’elettricità è salito nell’ultimo anno del 150% e, più in generale, i costi di importazione del gas sono aumentati del 25%), si può facilmente intuire che una moltiplicazione dei consumi energetici potrebbe nel lungo periodo essere un fattore di ulteriore destabilizzazione per la monarchia hashemita. Nonostante alcune iniziative del governo per calmierare i prezzi dei beni di prima necessità e dell'energia, finora qualsiasi tentativo è risultato vano, poiché tutto è stato mirato a placare i malumori della piazza piuttosto che a imbastire una strategia di lungo periodo per stabilizzare e, possibilmente, rilanciare l’economia nazionale.

Le proteste dell’ultimo anno, di fatto, non sono figlie solo di scelte poco lungimiranti del governo in materia di politica energetica, ma anche e soprattutto dell’incapacità dello stesso nell’accogliere le richieste di riforme che provengono da più settori della società civile: l’istituzione di un sistema multipartitico, una nuova legge elettorale in senso proporzionale che non prediliga i legami tribali e clientelari e che conferisca più poteri al Parlamento, una maggiore libertà di stampa e di opinione alle opposizioni islamiche, le quali, a ogni modo, alla luce della loro sostanziale integrazione nel sistema politico, continuano a rappresentare un modello unico rispetto ad altre esperienze del mondo arabo. Al di là dei proclami del governo e della monarchia hashemita sulle prospettive di riforme politiche ed economiche, la popolazione giordana richiede infatti il compimento di quel processo di modernizzazione che, durato solo un decennio, consentirebbe al Regno di Abdallah II di porsi come un’isola relativamente stabile in una regione dagli equilibri quanto mai precari.