Il genio da poco scomparso di James G. Ballard lascia, tra le altre cose, una scia di impressionanti intuizioni sul mondo del nostro presente e/o futuro. Sembra quasi che questa qualità lo abbia negli ultimi libri letteralmente posseduto fino a trasformare i suoi romanzi in sconvolgenti controcanti della nostra cronaca quotidiana. Era ovviamente già accaduto trentacinque anni fa con il celebre Crash e poi, per esempio, con Il condominio, tragica metafora spaziale dei nuovi conflitti identitari e territoriali, o con Millennium People, preveggente anticipazione di un nuovo sovversivismo dei ricchi e inquieti cittadini occidentali.

Ma questo rimbalzo tra cronaca e invenzione tocca un vertice davvero alto in Regno a venire, ripubblicato da Feltrinelli in edizione economica un paio di mesi fa. Se la prima edizione solo tre anni prima poteva anche apparire esotica o fantascientifica, con la sua ambientazione in una ricca periferia inglese dominata dalla mole non solo fisica dei suoi centri commerciali, nella recente estate italiana un libro del genere non doveva più passare inosservato. Perché d’un colpo sembra invece parlare proprio di noi e delle nostre attuali stagioni. Al protagonista Richard Pearson, pubblicitario in crisi anche professionale, uscendo dal cerchio magico e civilizzato del centro di Londra, accade infatti di imbattersi in qualcosa che appare improvvisamente familiare anche ai lettori italiani. Il Metro-Centre all’interno del quale il padre viene misteriosamente ucciso è infatti il cuore di un società mutante, attraversata da pulsioni e violenze sotterranee che generano effimere, inspiegabili esplosioni. Ma soprattutto, con una visione che non poteva che apparire accecante al lettore di questa estate italiana, a vigilare sulla tranquillità dei commerci e degli spettacoli ma anche a indirizzare quella violenza, circolano gruppi sempre più numerosi di cittadini che si riconoscono indossando magliette con la Croce di San Giorgio. Delle ronde, proprio così. Persone unite da vincoli a un tempo vistosi ed enigmatici, tenute insieme, più che dal fantasma della sicurezza, da due valori universalmente riconosciuti: il consumismo e lo sport. Unici antidoti alla noia sazia che abita quel territorio steso tra Londra e l’aeroporto di Heathrow, unici spazi dove qualche emozione ha ancora vigore.
Il romanzo di Ballard non si ferma qui e ricostruisce una realtà ancora più complessa, ma il nitore dell’intuizione di partenza non smette di brillare illuminando il perimetro di una condizione collettiva e delle risposte che essa stessa – prima ancora degli ingegneri del consumo e del consenso – si fabbrica. Dove il vuoto che il consumismo si propone di riempire si riproduce continuamente e deve essere continuamente saziato. Dove l’eccitazione generata dal campanilismo sportivo viene stimolata in continuazione e non può essere mai abbandonata a se stessa: è all’uscita dei grandi match di calcio, hockey e rugby che le ronde crociate animano defatiganti spedizioni punitive contro gli stranieri. Collanti fortissimi e insieme effimeri di tribù sull’orlo di un baratro. Perché c’è la minaccia di una crisi economica che può spazzare via l’ultima sicurezza, quella del denaro e perciò del consumo. Ma più ancora perché è troppo sottile il velo che copre l’assenza di vita, di valori, di futuro. Un autentico, gigantesco buco nero che nessuna ronda può nemmeno lontanamente fronteggiare e che Ballard racconta con una precisione sociologica e politica spaventosa – e, si può dire?, oggi purtroppo rara, molto rara nei campi stretti della sociologia e della politica.