Adesso che il Movimento 5 Stelle è risultato il vero vincitore delle elezioni amministrative, presentando liste in più di cento comuni, raccogliendo in molte città percentuali a due cifre, che lo conducono ad essere la terza (se non addirittura la seconda) forza politica del Paese, tra i “vecchi” partiti serpeggia la paura. Non si può dare loro torto perché Beppe Grillo, a differenza della Lega, con cui molti osservatori l’hanno paragonato, è riuscito in breve tempo, con costi modestissimi, e senza il radicamento territoriale di cui la Lega disponeva quando si è presentata la prima volta alle elezioni, a mettere insieme un considerevole numero di persone, giovani soprattutto e giovanissimi, nuovi all’impegno politico, ma fortemente motivati a far sentire la propria voce sulla scena pubblica.

È venuto dunque il momento di mettere da parte atteggiamenti di alterigia – birignao vari, e formule vagamente esorcistiche – per cominciare a comprendere, senza sottovalutarlo né rincorrerlo acriticamente, questo fenomeno. E la prima cosa da fare è proprio questa: non chiamarli più “grillini”, o almeno mettere il termine tra virgolette, i cosiddetti “grillini”, dal nome del fondatore del movimento. Grillo, infatti, è considerato dai militanti (e lui stesso dice di considerarsi tale) più un megafono che un capo. E su questo c’è da dargli credito fino a prova contraria, in quanto non esiste apparato centralistico, anzi non esiste apparato tout court che possa influenzare la scelta dei candidati e le decisioni degli eletti sul territorio. L’unico requisito richiesto sembra essere la trasparenza dei curriculum dei candidati e la loro fedina penale immacolata. “Hanno vinto i cittadini” ha subito commentato la straordinaria vittoria di Parma, mostrando che un’ideologia grilliana esiste, che inneggia alla democrazia partecipativa, alla riappropriazione delle istituzioni, a tematiche anti-globalizzazione, anti-banche, anti-mercato europeo, con forti tonalità ecologiste assai vicine ai movimenti degli indignados  che si sono diffusi ovunque in questa crisi globale .

La seconda cosa da fare è evitare tutti quei termini, abusati, che rassicurano solo chi li usa mettendoli al riparo da ben più inquietanti riflessioni ma che non vogliono dire più nulla. Come “antipolitica”, parola usata per Berlusconi, per Bossi e per molti altri assai diversi protagonisti, da Reagan a Di Pietro. Se per antipolitica si intende un atteggiamento critico a prescindere di tutte le espressioni del governo della cosa pubblica, i “grillini” non sono antipolitici. Semmai chiedono più politica e una politica diversa. Sicuramente si tratta di posizioni anti-partitiche che manifestano l’insofferenza, largamente diffusa tra la popolazione, verso i vizi della “casta”, la sua arroganza, incompetenza, avidità, auto-referenzialità. In particolare le posizioni politiche dei cinquestellini peccano di ingenuità palingenetica, che – tra parentesi – rischia di piacere molto ai giovani avidi di ideali e ostili al cinismo dei partiti. Perché urlare a tutto spiano nelle piazze mediatiche e reali che il “re è nudo” sarà pure ingenuo e demagogico, ma risponde a un reale bisogno di verità, che i cortigiani la smettano di lodare la magnificenza di abiti che non esistono.

Non si è sottolineato abbastanza, infatti, che l’emergere del Movimento 5 Stelle più che causa è l’effetto della voragine che si è andata approfondendo  da Tangentopoli in poi tra i cittadini e le istituzioni politiche, solo in parte frenata dalla fiducia che ancora sono in grado di raccogliere personalità come quelle del presidente della Repubblica e dell’attuale presidente del Consiglio. I partiti, anche quelli che sostengono il governo Monti, percepiti come pezzi dello Stato, piuttosto che come necessarie mediazioni tra istanze sociali e sistema politico democratico, coagulano su di sé la parte maggiore della sfiducia popolare. Divenuti i bersagli principali della protesta, di fronte a una crisi economica che chiede prezzi sempre più elevati, non hanno saputo cogliere l’occasione per autoriformarsi. I tagli agli stipendi dei parlamentari non sono stati fatti, mentre i rimborsi elettorali  continuano a essere vere forme di finanziamento pubblico, in barba al referendum. Finché il loro sguardo continuerà ad essere corto, il vuoto lasciato dai partiti sarà colmato dai loro affossatori. Ma senza partiti o con partiti deboli è la democrazia stessa ad essere a rischio.