Suicidi, il triste record del Sol levante. Secondo l’Associazione Internazionale per la prevenzione del suicidio (IASP), che collabora con l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), si tolgono la vita nel mondo più persone di quante ne muoiano in tutte le guerre, attacchi terroristici e omicidi: un milione di morti l’anno, due ogni minuto. Il più alto tasso di suicidi maschili tra gli otto paesi più avanzati del mondo è detenuto dalla Russia, seguita dal Giappone, che però figura al primo posto per quelli femminili.

Secondo l’ultimo comunicato dell’Agenzia Nazionale della Polizia nipponica, rilasciato lo scorso maggio, il numero di suicidi in Giappone nel 2008 ha superato le trentamila unità (32.249) per l’undicesimo anno consecutivo (pur essendo calato del 2.6% rispetto al 2007), con una media di quasi 90 suicidi al giorno. Il notevole aumento dei casi registrati nei primi mesi di quest’anno e la gravità della recessione che affligge l’Arcipelago lasciano ipotizzare una cifra molto alta anche per il 2009.
Dalle statistiche emerge come se in Occidente circa il 90% dei suicidi è imputabile a depressione clinica e a problemi di salute mentale, in Asia questa percentuale è inferiore al 50%, mentre tra le cause prevalenti che determinano il suicidio vi sono tensioni familiari o gesti impulsivi generati da una situazione di crisi contingente (debiti, licenziamento, ecc.). Le aree con il maggiore tasso di suicidi sono normalmente i distretti industriali, in particolare nel settore manifatturiero, dove i lunghi orari di lavoro e i turni di notte, aumentati in tempi di competizione globale, provocano superlavoro e stress (in Giappone è tristemente famoso il fenomeno del karoshi, la morte per eccesso di lavoro, dovuta a ictus e problemi cardiaci). Se a preoccupare negli ultimi anni è l’aumento dei suicidi tra i giovani (nella fascia 20-39 anni i problemi lavorativi sono la maggior causa di morte, il maggior numero di vittime si riscontra ancora tra gli anziani, che ammontano a più del 20% della popolazione nipponica, vittima di un inarrestabile calo delle nascite. Gli over 65 si tolgono la vita prevalentemente per ragioni imputabili al cattivo stato di salute o alle difficili condizioni finanziarie, aggravate dal venir meno dei tradizionali meccanismi di sostegno (lo stato sociale e la famiglia tradizionale allargata). Gli anziani sono stati colpiti dalla riduzione delle pensioni, che ha influito sulla qualità della loro vita, e dalle riforme del sistema sanitario intese a controllare la spesa pubblica. C’è poi il problema della mancanza d’assistenza, legata al fenomeno dell’emancipazione e della professionalizzazione femminile, dal momento che tradizionalmente la cura degli anziani spettava alle figure femminili della famiglia.
Nell’ultimo anno, in particolare, sono aumentati percentualmente i suicidi tra le donne (+3.6%), e tra i giovanissimi sotto i 19 anni (+11.5%, con 60 casi tra studenti di scuola media inferiore e 4 delle elementari). Nel caso dei giovani incide pesantemente la pressione del sistema educativo, in una società che attribuisce un valore socialmente elevatissimo al curriculum scolastico, ma anche la meno assidua presenza delle madri in famiglia. I fenomeni di bullismo, la mancanza di comunicazione in famiglia, la competizione sul luogo di lavoro, la necessità di conquistare e mantenere un ruolo socialmente stimato richiedono un impegno che non sempre i giovani sono in grado di sopportare. Di qui l’aumento di suicidi: proliferano i siti internet su cui trovare compagni con cui affrontare la morte e scambiarsi informazioni sui posti e sulle tecniche migliori. I protagonisti del fenomeno dei suicidi di gruppo, nato nel 2003, sono al 99% giovani dai 20 ai 30 anni.
Il disagio individuale agisce su un substrato culturale peculiare. Nella società giapponese il singolo è lasciato a se stesso e gli si chiede di limitarsi a realizzare i propri doveri civili e morali di cittadino. Contemporaneamente però, i millenari valori confuciani che hanno plasmato la società hanno invitato a ragionare in termini di “bene della comunità” e non di benessere individuale. In una società patriarcale e gerarchica, non rispondere a modelli prefissati o fallire come individui porta all’emarginazione da parte del gruppo (sia esso la famiglia, l’ambiente di lavoro, il quartiere, la società intera). Non farne parte causa un senso d’abbandono e di disperazione tale da portare a pensare di non poter continuare a vivere. Inoltre, nell’Arcipelago l’atto di togliersi la vita ha radici culturali e storiche molto profonde: da un lato non esistono divieti religiosi, dall’altro il suicidio ha spesso rappresentato un’onorevole soluzione a delusioni e fallimenti individuali, ma anche un atto d’estremo coraggio, onore, devozione o protesta verso i superiori, un atto molte volte considerato eroico. In momenti difficili, il suicidio rappresenta tuttora per i giapponesi un modo per proteggere i propri cari dall’umiliazione derivante dal proprio fallimento, o persino per liberare la famiglia dai debiti, dal momento che le polizze assicurative sulla vita indennizzano anche in caso di suicidio. Quest’anno, per la prima volta, il Ministero della Salute ha riconosciuto ufficialmente la gravità del problema.