Sono un’orchestra. Le percussioni dei piedi mettono in moto onde sonanti scure, lente. Il flauto del respiro succhia aria dal tubo di plastica per due o tre secondi e con colpi di lingua la espelle in un tempo doppio. Il tamburo è il cuore, gli archi, acuti, fischiano intorno alle orecchie. Captano lo sciabordio minuto dell’acqua, suoni raggranellati in polvere e sabbia, sibili impercettibili a un ascolto qualsiasi. Ma ascoltare distrattamente qui, in fondo, è un’eresia. Perché non c’è altro da fare se non sentire. In raccoglimento con te stesso, ti parli senza voce. Una condizione necessaria a chiunque nuoti in un mare così, che ti accoglie nelle sue foreste di pace e di coralli a forma di fungo, di piastra, a corna di cervo, ventaglio, cervello. Non un motore a infrangere la quiete sommersa, non una voce: nessuna eco di turismo di massa può distoglierti da te.

L’esercizio dell’ascolto del mare, di un mare ricco di vita tacita e tuttavia sgargiante nelle migliaia di specie in movimento, dove tutto quello che c’è da sentire è ciò hai dentro, ci riconduce al nostro antico sé. Alla prima percezione che abbiamo ricevuto dal mondo, quando non eravamo ancora umani ma già viventi, e il primo nostro sentimento è stato un suono. Un suono propagato proprio come in mare, attraverso un fluido che era liquido amniotico. Quel suono proveniva dalla madre di ognuno di noi, esteso da lei nella carezza di un’onda interna, per giungere trasportato dal moto acquatico alle nostre orecchie. Mi concentro per ascoltarmi meglio. Possibile che niente risuoni? Sott’acqua si è muti, ma in verità si sente molto di più. Il suono viaggia quattro volte e mezzo più veloce e quando è il suo momento, irrompe nel riposo sottomarino con un effetto clamoroso. Ma non siamo abituati a sentire attraverso l’acqua, e con le orecchie annaffiate sembriamo apparentemente sordi. Provo ancora ad ascoltare. Registro solo un suono ancora: l’arpa del vento, che spettina il pelo del mare, qualche centimetro sopra me.

Sono immersa nell’Oceano indiano, il labile confine che mi circonda lontano si chiama atollo di Ari. I miei movimenti contano nulla nel labirinto sconfinato di anemoni, gorgonie, spugne e alghe lucenti. Impercettibilmente, mi sto spostando qualche grado più a sud dell’isola di Mirihi, Maldive. Forse le orecchie sono troppo distratte laddove gli occhi sono inondati d’incessante bellezza, anche se El niño è passato di qui, poi lo tsunami. Hanno ucciso, e si vede. Un vasto cimitero di coralli bruciati, nel 1998 dall’innalzamento di quasi cinque gradi della temperatura marina, ha determinato lo sbiancamento e la morte del novanta per cento delle acropore, privandole della loro anima colorata e tramutandole in fossili grigi. Poi nel 2007 la tremenda onda ha spezzato molti rami corallini, sradicandoli dalle loro secolari radici.

I maldiviani sono silenziosi, discreti. Popolo di pescatori e di poco altro, talmente essenziale che anche la musica è quasi nulla, eccezion fatta per le laava di Kuda Ibbe, le canzoni del cantante più famoso, o per gli adu, i versi del coeli, del kambili o del khaloo, gli uccelli che sorvolano i piccoli villaggi, misurati per numero di palme di cocco. Nemmeno i maldiviani sanno dei suoni sottomarini. Paolo, che tra tutti noi è quello capace delle maggiori profondità, è certo di aver ascoltato un richiamo subacqueo. Siamo in viaggio con Aman, Hossain, Ajom, Alam e il capitano Abdullah, nessuno di loro gli crede, dicono che non esistono pesci sonanti in tutti gli ottocentocinquanta chilometri di estensione verticale dei ventisei atolli. Che i delfini sono gli unici a parlare, e forse quel suono ha viaggiato sulla corrente, proveniente da un branco remoto di cetacei. Anche Valentina, che ha finissima vista marina, giura di aver sentito per due volte un pesce cantare. La sfida dei suoni riguarda tutti ora, Pietro, Sabrina, Daniele, Alessandro, Lamberto, Valeria, miei compagni di viaggio. Ognuno si mette alla prova nell’esercizio d’ascolto, ma niente: il mare appare muto, solo il piccolo corredo di strumenti formato dal nostro corpo sembra generare una personale partitura acquatica. E invece Paolo aveva sentito giusto, perché a leggere le recenti affermazioni degli scienziati americani del Centro di ricerca della comunicazione acustica, il pesce gatto produce suoni gravi simili al tubare dei piccioni e sa gridare come le scimmie, i pagliaccio emettono rumori per corteggiare e spaventare sbattendo le loro piccole fauci, la rana pescatrice ronza e fischia migliaia di volte al minuto con i suoi muscoli vibranti, mentre l’aringa, poco educata, soffia bolle rumorose dal suo ano. Altre specie, più pudiche, gracidano come rane, poi ci sono virtuosi capaci di timbri simili a strumenti musicali, altri ancora assomigliano a micro martelli pneumatici, persino a mazzi di chiavi, come si può ascoltare in queste performance registrate dal vivo.

Tendendo l’orecchio nel mare si apprende una capacità d’ascolto che si misura con proporzioni stravolte dal consueto, distanze dello spazio sonoro e profondità di suono inaudite che hanno ispirato Michel Redolfi, l’autore più noto di composizioni da immersione. Perché «l’acqua materializza il suono, lo sostantivizza, lo rende spesso, palpabile, penetrabile». Acqua e suono intrecciati a livello molecolare generano un fluido, una sostanza acustica precisa, «misurabile in metri cubi, in decibel, in gradi centigradi, o in hertz». Ed è lì, nel concerto subacqueo, che l’uditore è libero di attraversare questo campo d’ascolto come vuole e di infrangere i propri schemi mentali, lasciandosi fluttuare in quello che Ridolfi ha definito «il serbatoio onirico».